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Il padrone dei sondaggi
Quasi si fosse in un’aula universitaria, giovedì scorso a Montecitorio, si è “insegnato” Berlusconi, nella sua indubbia arte della comunicazione. Un seminario promosso da Antonio Palmieri, in collaborazione con la rivista ComPol, in cui molti studiosi di scienza della comunicazione hanno discusso, argomentato ed analizzato il fenomeno Berlusconi dell’ultimo ventennio. Senza acrimonia, senza prese di posizioni partitiche, come se fosse una “asettica” materia di studio. Un incontro utile e proficuo per parlare anche dell’oggi, dell’attuale situazione politica dove pare sempre più rilevante l’arma della parola, del messaggio veicolato dai social, dell’interazione tra leader politici ed opinione pubblica.
Uno degli aspetti su cui il leader di Forza Italia può essere considerato, a buon diritto, una pietra miliare nel nostro paese è quello legato all’utilizzo degli strumenti demoscopici. Non soltanto quelli più noti, come i sondaggi, ma anche quelli meno pubblicizzati ma altrettanto importanti, come le ricerche qualitative, le interviste personali o i “focus groups”. All’inizio degli anni Novanta, in Italia, la politica – ma anche gran parte dell’accademia – faceva scarso uso di questi strumenti per aumentare il proprio livello di conoscenza della società e degli elettori. Ci si fidava del fiuto personale, della tradizionale fedeltà di voto, derivata dalle antiche appartenenze territoriali (un cittadino delle cosiddette zone rosse votava a sinistra, mentre la Dc veniva scelta dagli abitanti delle zone bianche). Ma con la progressiva diminuzione di rilevanza di quelle antiche appartenenze, e con la contemporanea crisi di fiducia in molto importanti partiti, dopo Tangentopoli, il livello di conoscenza dei bisogni, delle opinioni, dei desideri degli elettori cominciava a farsi sempre più deficitaria.
Il grande merito di Berlusconi, in quegli anni antecedenti la sua discesa in campo, fu proprio quella di tentare di migliorare il quadro di conoscenze, utili a veicolare la sua futura proposta politica, attraverso un massiccio utilizzo proprio di quegli strumenti, fino ad allora sorprendentemente negletti. Una vera rivoluzione, in quel campo: i metodi di analisi in uso intensivo nelle ricerche di mercato applicati alla politica. Non a caso venne coniata in quegli anni la definizione di “mercato elettorale”. Un elettore con sempre meno legami con il passato, con forze politiche in rapido declino, stava diventando pronto ad abbracciare scelte di voto inedite, semplicemente andando a verificare quale proposta politica gli sembrasse la migliore, per lui o per il paese, in quel momento storico.
Non gli venne dato molto credito, inizialmente. Non lo prendevano seriamente, gli altri (vecchi) uomini politici. Argomentavano che il voto non è un’automobile, o un frigorifero, e non può venir trattato alla stregua di un oggetto di consumo. Ma aveva ragione lui, nel tentare di fare, allora, ciò che oggi caratterizza anche quasi tutti gli altri: cercare di fare una sorta di “profiling” degli elettori, di comprendere le loro priorità, le issues più rilevanti da risolvere, di capire meglio la loro storia di voto e, a volte, di creare parole d’ordine corrispondenti alle loro aspettative. Giusta o sbagliata che fosse, corretta o scorretta la linea politica che veniva proposta, era il metodo che funzionava, in un’ottica di maggiore comprensione dei bisogni e delle aspettative, dei problemi più urgenti nella loro personale agenda-setting e nella formulazione di indirizzi e risposte politiche per risolvere quei problemi.
E’ stato, forse, un piccolo genio, nel riuscire a cambiare così radicalmente l’approccio alla politica, al rapporto che doveva divenire più stretto tra domanda e offerta, oltre che nello stile di comunicazione di quella offerta. E di questo parleranno altri studiosi nei prossimi giorni. Ma certamente l’utilizzo degli strumenti di ricerca, propri delle scienze politiche, applicati alla strategia elettorale è un merito che non si può disconoscere a Silvio Berlusconi. E poi, lo sappiamo, è stato anche fortunato nell’applicare i risultati di quegli strumenti, perché molti italiani, in quel periodo, si sentivano orfani di due dei più importanti partiti, il Psi e la Dc, e il leader di Forza Italia divenne presto il ricettacolo di quei voti in attesa di una nuova offerta. Ma ci riuscì, quando altri nello stesso periodo invece fallirono, come Mario Segni, che non seppe capitalizzare quell’elevato livello di consenso maturato nel periodo di cambiamento. Forse proprio perché incapace di leggere correttamente, al contrario di Berlusconi, i segnali che provenivano dall’elettorato.
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