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Il licenziamento di Benelli non basta a salvare la credibilità del giornalismo

14 Maggio 2015

 

La storia di Fulvio Benelli è nota. Il giornalista di Mediaset viene scoperto a truccare i servizi giornalistici e viene licenziato in tronco dalle testate a cui li aveva venduti.

I servizi incriminati sono due: nel primo c’è un rom che spiega la sua tecnica usata per rubare auto agli onesti cittadini italiani. Nel secondo l’intervistato è un estremista musulmano, che al microfono giustifica gli attentati terroristici. Vengono trasmessi entrambi da Rete 4 (il primo in “Quinta colonna”, il secondo su “Dalla vostra parte”) ed entrambi sono taroccati: la fonte di Benelli è un attore, lo stesso in entrambi i casi, pagato poche centinaia di euro per vestire di volta in volta i panni del cattivo.

A svelare il trucco è un altro programma delle reti Mediaset, “Striscia la notizia”, che riesce a intervistare l’attore ingaggiato da Benelli, non lasciando a Claudio Brachino (direttore Videonews) e Mario Giordano (direttore Tg4) altra possibilità che troncare ogni rapporto professionale col giornalista

“Con questi servizi – scrivono in un comunicato congiunto Brachino e Giordano, responsabili delle due trasmissioni Mediaset – Benelli ha ingannato la buona fede delle nostre testate, rischiando di recare un grave danno al lavoro sempre corretto e professionale della redazione e dei colleghi. La nostra credibilità nell’approfondirefatti e notizie è nota al pubblico, che non a caso sta attribuendo grande successo a entrambi i programmi. E per fortuna esistono gli anticorpi per individuare ed espellere chi, a questa credibilità, attenta in qualsiasi modo”.

Proprio su quest’ultimo punto, quello della credibilità, vale la pena di soffermarsi.

Il rischio in questo caso è di far passare Binelli come la mela marcia del sistema, che viene espulsa grazie alla presenza dei famosi “anticorpi”. La realtà che osserviamo tutti i giorni ci racconta che le cose stanno molto diversamente e che la crisi di credibilità dell’informazione è grave, se non irreversibile, e non basta una truffa smascherata a risolverla.

Sempre Mediaset (“Mattino 5”), aveva messo in giro poco tempo fa l’intervista esclusiva a una ragazzina rom che si vantava di guadagnare “fino a 1000 euro al giorno”. Anche in quel caso , come rivelato successivamente da “Servizio Pubblico”, si trattava di un falso e l’intervistata era stata pagata dalla giornalista per dichiarare esattamente quello che la giornalista voleva sentirsi dire.

Ma nel frattempo la “notizia” era diventata virale, contribuendo ad alimentare il discorso su “i rom che rubano”, così come altre bufale messe in giro da tv e carta stampata di cui pure abbiamo parlato su Gli Stati Generali.

Ci sarebbe da chiedersi anche a chi giova questa nuovo modo di fare “giornalismo”.

È evidente come la costruzione di servizi in laboratorio, realizzati al solo scopo di avvalorare verità preconcette e solleticare il razzismo sempre meno latente della nostra opinione pubblica risponde all’esigenza di far aumentare gli ascolti, ma non si può perdere di vista anche la dimensione politica di questa nuova tendenza.

Questa maniera irresponsabile e pericolosa di utilizzare uno strumento tuttora potente quale e quello dell’informazione va a tutto vantaggio dei vari Salvini, che non a caso sono gli ospiti più presenti in questo tipo di programmi televisivi.

Sarebbe però un errore attribuire la degenerazione del mondo dell’informazione a una semplice questione di scarsa professionalità, interpretarla cioè come un cattivo modo di fare giornalismo. Poche settimane fa l’Espresso pubblicava un’inchiesta dedicata alla galassia di siti che usano Facebook e Twitter per diffondere menzogne varie, “con lo scopo di guadagnare soldi o raccattare voti”, laddove si spiegava che “Basta qualche ricerca per scoprire che fanno capo ad attivisti di Forza Nuova, Lega Nord e Movimento Cinque Stelle”.

Nulla o poco, insomma, è spontaneo. La storia degli anni recenti ci ha dimostrato come l’opinione pubblica di un paese si possa opportunamente formare, condizionare e indirizzare attraverso i media. Rispetto alla pervasività dello strumento televisivo, esistente solo fino a una decina di anni fa, adesso buona parte del flusso mediatico passa attraverso il web, ma al cambiare del mezzo non sembra però essere cambiata la sostanza.

Cacciare i vari Benelli va bene. Pensare che così si salvi il giornalismo è superficiale. Ignorare le ricadute politiche di questo nuovo modo di fare informazione è pericoloso.

@carlomariamiele

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