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Il frigorifero “pidiota”, il mio ano e la piaga dell’hate speech
Nella giornata di ieri, ho avuto la malaugurata idea di postare una foto dove mi ritraevo seduto su un frigorifero lasciato da giorni sul marciapiede subito fuori dal portone di casa mia, ironizzando sulla vicenda del “frigo gate” che in autunno aveva prodotto migliaia di sfottò all’indirizzo del sindaco di Roma, Virginia Raggi, per la sua teoria complottista secondo cui c’era qualcuno (del Pd) che lasciava elettrodomestici in strada per screditarla. Non lo avessi mai fatto: ai soliti insulti “grillini” (quelli che nel migliore dei casi mi definiscono “giornalaio pidiota pagato dalla ka$ta) si sono aggiunti quelli di alcuni fan di Matteo Renzi, che – non afferrando l’ironia – hanno iniziato a rivolgermi le medesime ingiurie dei seguaci del comicoleader genovese, spesso consigliandomi di inserire il frigorifero nella mia cavità anale e accusandomi di essere pagato dalla Casaleggio Associati per screditare il Pd. A pensarci bene, l’interesse per l’attività del mio ano e per i miei bonifici in entrata è trasversale ai simpatizzanti di tutti i partiti politici, forse ad eccezione di quelli di “Area Popolare-Ncd-Centristi per l’Europa” che – si sa – certe cose magari le fanno ma non le raccontano.
Ho voluto raccontare questa vicenda che mi ha coinvolto personalmente perché rientra in una casistica purtroppo assai diffusa, quella del cosiddetto “hate speech”, che in italiano viene tradotto con la formula “incitamento all’odio”. È un fenomeno che si sta diffondendo sempre di più e il suo maggior vettore sono i social network, dove il filtro psicologico rappresentato dai device (tablet, smartphone, computer), produce un calo dei freni inibitori generando in molti individui una sorta di doppia personalità che in molti casi si distingue per violenza di linguaggio e volgarità.
Ne consegue che chi (come il sottoscritto) commenta fatti di politica e attualità, è quotidianamente bersaglio di ogni tipo di insulto e minaccia, anche a causa di un ritardo normativo che rende difficilmente perseguibili i reati di ingiuria e diffamazione quando questi vengono commessi in rete. Ma le difficoltà che incontrano le forze dell’ordine e i pubblici ministeri che seguono questi casi, oltre che da leggi non aggiornate al mondo digitale, dipendono principalmente da una certa megalomania che caratterizza le società che gestiscono i social network (in particolare Facebook e Twitter) che tendono a considerare le loro policy al di sopra delle leggi nazionali dei paesi dove diffondono il loro prodotto, almeno fino a quando i governi di quei paesi non intervengono in maniera più o meno violenta, con sanzioni – come nel caso della Germania, che sta discutendo una legge per multare la diffusione delle fake news – o addirittura oscurando i siti come ha fatto nel recente passato la Turchia di Erdogan (in quel caso per censurare il dissenso politico).
In realtà, come spesso accade, alla base di tutto c’è un discorso di contenimento delle spese che genera un disservizio. L’esempio lampante è proprio quello di Facebook. Il re dei social network difetta non poco nella gestione delle segnalazioni perché la struttura che le gestisce – un ufficio a Dublino con un centinaio di operatori che conoscono le lingue a livello scolastico – non riesce a gestirne la mole e soprattutto manca delle competenze necessarie per moderare una realtà complessa quale è una comunità virtuale con milioni di iscritti.
Faccio un altro esempio lampante. In occasione della giornata dell’arte partecipai a una di quelle tendenze virali in cui ognuno cambiava per un giorno la sua immagine del profilo sostituendola con un’opera d’arte. Ebbi allora la sventurata idea di cambiare la mia foto con “L’origine du monde” di Gustave Courbet, uno dei quadri più famosi del pianeta che ritrae il primo piano di una vagina. Tempo pochi minuti e la foto fu rimossa perché secondo l’operatore del call center che verosimilmente aveva ricevuto l’alert del sistema (alcune forme come quelle dei genitali vengono individuate in automatico da moderni software di controllo), la mia foto rappresentava una violazione delle regole perché mostrava un nudo esplicito. Inutile provare a spiegare che in realtà era stato bannato un famoso dipinto, il mix tra automatismo della macchina e ignoranza dell’operatore (forse pagato pochi euro l’ora?) ha prodotto la singolare censura.
Ma se la rimozione di un’immagine può essere considerata alla stregua di una semplice gaffe, la situazione si aggrava quando si tratta di far cancellare contenuti di altro tipo, come pagine inneggianti il razzismo, il sessismo, o gruppi dove vengono diffusi link pericolosi come archivi di immagini pedopornografiche. In quel caso, non sempre gli operatori di Facebook comprendono la gravità del problema, attenendosi alla lettera (come fossero dei robot) alle policy del social che non prevedono ad esempio casi come l’apologia di fascismo, che in Italia è reato. Ne sa qualcosa Selvaggia Lucarelli, che dopo sei mesi di denunce è riuscita a far rimuovere la pagina “Sesso, droga e pastorizia”, un tripudio di bestemmie, insulti sessisti e amenità di ogni tipo. Purtroppo, di pagine di questo tipo ne nascono tantissime e vengono continuamente clonate. E visti i tempi con cui l’azienda di Mark Zuckerberg si degna di prendere provvedimenti, contrastare la loro diffusione diventa spesso una guerra contro i mulini a vento.
La stessa cosa avviene quando si segnalano profili palesemente “fake” creati in batteria appositamente per insultare e minacciare contatti sgraditi. È una tecnica molto utilizzata dagli attivisti del Movimento 5 Stelle per diffondere i contenuti dei parlamentari grillini più in vista e per organizzare veri e propri “shitstorm” contro i profili “nemici” di giornalisti e politici di altri partiti. In quel caso, l’unico modo di accelerare il blocco da parte di Facebook è quello di denunciare questi profili e il loro id alle autorità, che nel giro di qualche mese dovrebbero essere in grado (il condizionale è d’obbligo) di risalire ai loro intestatari e perseguirli. Anche qui la condotta del social è assai discutibile: non sempre, infatti, vengono forniti ai Pm i dati degli utenti (sceglie la società quali dati fornire, in modo inspiegabilmente arbitrario) e comunque serve una rogatoria internazionale (gli uffici legali sono in USA) che allunga notevolmente la trafila burocratica e i tempi della giustizia.
Il fenomeno dell’hate speech sta crescendo e non riguarda solo le nuove generazioni. Anzi, specie quando l’argomento è la politica, i soggetti più “violenti” (lo scrivo per esperienza personale) sono le persone dai cinquanta in su, che non avendo dimestichezza col mezzo forse non ne comprendono la portata e magari pensano che un insulto sia letto da tre o quattro persone e non da un pubblico potenzialmente vasto.
La politica, oltre a scrivere delle leggi in materia che vincolino a delle regole anche le società che gestiscono i social, dovrebbe quindi istituzionalizzare delle forme di “educazione digitale” predisponendo dei sistemi di formazione intergenerazionali che possano prevenire da un lato i fenomeni di cyberbullismo e dall’altro le “metamorfosi ovidiche” di miti nonnine in feroci scaricatori di porto. Nel frattempo, non posso che rispondere ai miei affezionati hater che non sono stipendiato né dal Partito Democratico, né dalla Casaleggio Associati. E che se pure mi allenassi per una vita e mi dedicassi all’impresa con devozione, far transitare un intero frigorifero dove loro vorrebbero è davvero impossibile…
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