Media
Il continuo fallimento del giornalismo davanti ai populisti
Tra i grandi malati italiani c’è il giornalismo, su questo non vale nemmeno la pena discutere; ma c’è differenza tra conoscere la situazione e tacere davanti alle gravissime mancanze di un potere che dovrebbe controllare gli altri, e che invece finisce spesso per esserne complice. In un libro pubblicato nel 1995, Ultime notizie sul giornalismo (Laterza), Furio Colombo denunciava i mali che affliggevano il suo mestiere, e ne sottolineava tre:
1- Il rapporto con il potere
2- Le notizie senza fonte
3- La esibita imparzialità
Sono tre mali endemici al giornalismo, ma i primi due dipendono da una relazione dinamica con fattori oggettivi, mentre il terzo è il frutto dell’idea che il giornalismo coltiva di se stesso. Il rapporto con il potere, infatti, dipende anche dal modo in cui il potere si rapporta al giornalismo, e le notizie senza fonte dipendono anche dalla quantità di materiale messo a disposizione affinché i quotidiani lo diffondano (da fonti secondarie poco attendibili, per esempio, o sulle reti sociali).
È sufficiente, in altre parole, che un personaggio pubblico digiti due righe di commento a un fatto di cronaca, perché i quotidiani se ne facciano immediati portatori. Questo ormai l’hanno capito in tanti, e leggiamo esternazioni che provengono addirittura dai luoghi di villeggiatura. Non è necessario che si produca alcun incontro, alcuna conferenza stampa e neppure una semplice telefonata: le esternazioni viaggiano sui profili dei social networks e il giornalista si limita spesso a diffonderle. Una specie di notiziario fai-da-te che scaturisce in un bazar di dichiarazioni, commenti, buzz, tutto con scarsa o nulla verificabilità. I giornali subiscono le cosiddette “strategie sporche” dei leader populisti perché rilanciano i loro post per aumentare le revenues pubblicitarie e il gioco è fatto: è una pratica che comporta notevoli vantaggi per chi esterna, che può restarsene comodamente seduto davanti al computer e osservare come i suoi tweet vengono letti e veicolati da milioni di persone.
Ora, affinché una tale consuetudine giornalistica prenda piede, è necessario che il terzo problema segnalato da Furio Colombo già nel 1995, la esibita imparzialità, rimanga irrisolto. Un giornalista che sa fare il proprio mestiere non avrebbe difficoltà a contestare le dichiarazioni costruite dai populisti nelle loro clip targhettizzate, come ad esempio questa esternazione di Alessandra Mussolini. Perché non lo fa? Il motivo è più o meno il seguente: i giornalisti coltivano un’insana idea d’imparzialità che li induce a non schierarsi, a non parteggiare per la verità dei fatti, a caldeggiare invece la mera popolarità di una notizia: se qualcuno obietta che si tratta di ridicolaggini offensive, sosterranno di confidare nella capacità di discernimento di chi legge.
In un articolo apparso sul sito dell’Osservatorio Europeo sul Giornalismo il 7 novembre 2016, Robert G. Picard, esperto in economia dei media e curatore del blog themediabusiness, ha cercato di approfondire questo fenomeno. Vediamone in particolare alcuni passaggi:
Il populismo si sta rafforzando in molti Paesi democratici, mettendo alla prova i fondamenti giornalistici di obiettività, onestà ed equilibrio e mostrando che ci sono dei limiti evidenti anche in certe abitudini giornalistiche consolidate. Se i giornalisti e le organizzazioni mediatiche non reagiscono, le libertà fondamentali di cui godono i cittadini delle società democratiche potrebbero essere seriamente a repentaglio.
Questo dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi analisi; eppure non sembra di avvertire, nel settore dell’informazione italiana, una preoccupazione adeguata ai rischi che corriamo. Ciò deriva, almeno in parte, dalla tradizionale concezione della materia prima del giornalismo, cioè la notizia, e dell’uso consuetudinario che ne viene fatto. Che cos’è, in effetti, una notizia? È un fatto, certo, ma non tutti i fatti costituiscono una notizia; affinché un fatto sia una notizia deve soddisfare alcuni criteri, tra i quali i più frequenti sono quelli di novità, rarità, imprevedibilità e/o devianza.
Le esternazioni dei populisti prevedono artatamente tutti o alcuni di questi fattori, e non a caso ottengono un’ampia attenzione da parte dei giornalisti e delle redazioni. Non è così per un politico che affermi: “È necessario difendere la democrazia”, perché una tale dichiarazione non soddisfa il criterio di rarità (dovrebbe essere normale), né di devianza, perché difende lo stato di diritto. L’appiattimento sulle notizie devianti aiuta certamente i populisti, ma quello che c’interessa segnalare è che costituisce il primo fallimento del giornalista.
Una cronaca precisa, in effetti, non è sufficiente affinché una notizia sia trattata in modo efficace, intendendo per “efficace” la possibilità che il lettore ne ricavi una rappresentazione completa dei fatti e delle loro possibili manipolazioni. Il problema non risiede nella precisione, perché i giornalisti riportano in modo accurato quanto viene detto dai leader populisti; il problema risiede nell’assenza di una contestualizzazione che aiuti il lettore/telespettatore/ascoltatore a capire cos’è successo e perché.
Quando determinati articoli contengono menzogne e disinformazione dovrebbero essere dovutamente contestualizzati dai giornalisti e dalle redazioni, altrimenti una parte del pubblico rischia di prenderle per vere. Potrebbe sembrare un semplice esercizio di buon senso, ma è anche uno dei precisi doveri di un giornalista.
È quanto stabilisce, almeno, il Testo unico sui doveri del giornalista, approvato dall’ordine professionale il 27 gennaio del 2016 (art.1), e significa che se non viene fatto, il giornalista tradisce il proprio codice deontologico; con esso, naturalmente, se stesso e il proprio pubblico. Anche su questo punto, esiste una sostanziale convergenza tra Furio Colombo e Robert G. Picard:
I giornalisti devono fare di più che riferire meramente ciò che un politico ha detto, fornendo informazioni ulteriori che confermino o contraddicano le sue dichiarazioni, o mostrando quali affermazioni sono basate su disinformazione e prese erroneamente per fatti. I giornalisti devono esaminare affermazioni, trovando i fatti e rivelando le falsità.
Siamo dunque arrivati al cuore del problema: l’imparzialità, esibita anche quando correttezza professionale vorrebbe che la notizia fosse ampliata, inquadrata, a beneficio della sua precisione, complessità e comprensione: un’integrazione che permetta al lettore di farsi un’idea precisa di quanto sta leggendo, ad esempio che Alessandra Mussolini sta ipotizzando un sequestro di persona. A cosa dovrebbe servire, altrimenti, la presenza di un giornalista?
Stiamo parlando di una mancanza, e le mancanze non sono mai innocenti, in una narrazione. Pubblicizzando le dichiarazioni “stravaganti” dei leader populisti, e trattandole in modo imparziale, i giornalisti stravolgono o nascondono la verità, e pertanto anche la correttezza di una notizia. In altre parole, falliscono. Talvolta tutto questo risponde a obiettivi premeditati, ma non è sempre così.
Questo comportamento si fonda in effetti su un’idea erronea di equilibrio, potremmo dire su un’idea pilatesca di equilibrio; e se alla evidente semplificazione si aggiunge una presentazione bilanciata, equidistante, si dà l’errata (anzi, peggio, colpevole) impressione che tutte le opinioni hanno lo stesso peso, lo stesso fondamento, in una parola la stessa autorevolezza. L’errore di Pilato fu dimostrato dalla storia, ma quanto tempo dovremo aspettare, noi lettori del XXI secolo, per leggere un’autocritica dei mali del giornalismo attuale?
Non tutte le idee hanno lo stesso valore e, quindi, non dovrebbero essere presentate nello stesso modo. I giornalisti devono aiutare i lettori a distinguere le idee ragionevoli da quelle non ragionevoli.
Sembra semplice, non è vero? E lo sarebbe se i giornalisti rispettassero il testo che regola lo svolgimento della loro professione. Nel Testo unico sui doveri del giornalista si stabilisce infatti che il giornalista ha l’obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale dei fatti (art.1).
L’art. 2 afferma inoltre che il giornalista elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni dato o notizia di pubblico interesse. Questa formula, “elabora e diffonde con la maggior accuratezza possibile”, dovrebbe essere l’ora et labora di un buon giornalista. Elaborare non significa limitarsi a diffondere, o a prestare il microfono a chi diffama, insulta o mente: perché il giornalista ha l’obbligo professionale di ostacolare le rappresentazioni errate, le esagerazioni, le falsità e le menzogne.
Le analisi, pertanto, concordano: abbiamo il diritto di chiedere ai giornalisti molto più di quanto non stiano facendo per combattere le devianti esternazioni dei leader populisti. Riportare falsità offensive e irragionevolezze non aiuta il pubblico ad avere un’opinione ragionata sui fatti. La strumentalizzazione delle pratiche giornalistiche dovrebbe pertanto suscitare una reazione dei diretti interessati; ma affinché non sia vacua e inconcludente si dovrebbe tenere a mente il vero principio della professione del giornalista: il dovere di raccontare la verità (che poi è anche il più bello).
A buon intenditore, poche parole, ma visto i buoni intenditori scarseggiano, meglio integrare la frase: il giornalista ha il dovere di raccontare tutta la verità, scrupolosamente, affinché una sua parte, una sua deviazione, o una sua evidente manomissione non possano passare per ciò che non sono. La pena, se ancora non l’hanno capito, è il fallimento del giornalismo, e, con esso, del modello informativo delle nostre care, vecchie democrazie indirette.
Devi fare login per commentare
Accedi