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I tanti falsi eroi che l’Italia vuole darsi a tutti i costi
C’è solo un ritornello ancora più stucchevole dell’etichetta di “eroe” appiccicata addosso a persone che non la meritano; quello per cui ogni titolo di articolo che racconta del bambino sul punto di annegare salvato all’ultimo da uomo X, del medico italiano che si è ammalato di Ebola, del comandante del Norman Atlantic (e via elencando casi di cronaca degli ultimi anni) titola inevitabilmente “non chiamatemi eroe”, oppure “ma non sono un eroe” e altre forme simili.
Questa pratica dev’essere nata nel giorno sciagurato in cui qualche giornalista ha provato a chiedere all’uomo del giorno se si sentisse un eroe e questo, inevitabilmente, ha risposto di no (immaginate qualcuno che dica: “Beh, sì, in effetti mi sento proprio un eroe”). Da allora la domanda viene posta al solo scopo di ricevere la risposta negativa e poter così fare il titolo.
Ora: un medico di Emergency che lavora nelle zone più a rischio del pianeta è, al limite, un eroe per questo preciso motivo, non perché incidentalmente si ammala di Ebola. Un uomo che salva da morte certa un perfetto sconosciuto può anche essere considerato un eroe, anche se la cosa comporta una certa riduzione del termine. Un comandante che compie il suo dovere può essere un buon comandante, un grande comandante, difficile immaginare che sia addirittura un eroe.
Ma questi sono casi accettabili – nella esasperata retorica dei mass media – perché quanto meno si tratta di esempi positivi che in qualche modo possono avere un effetto benefico sulle coscienze del nostro paese. Il peggio accade quando la nomea di “eroe” viene utilizzata per indicare persone che solitamente hanno due sole cose in comune: essere italiani e malcapitati. Non è questo il luogo per un’approfondita disamina del caso dei marò italiani, se c’è però una cosa certa è che i due non possono in alcun modo essere definiti eroi.
Basta prendere in mano un dizionario (in questo caso il Garzanti) e vedere cosa c’è scritto alla voce “eroe”: “Chi dà prova di straordinario coraggio e abnegazione, specialmente in imprese guerresche; chi si sacrifica per affermare un ideale”. Nel primo caso, diciamo così, non c’è bisogno di essere un eroe positivo, basta dimostrare straordinario coraggio; nel secondo, invece, sembra che il punto sia l’ideale per difendere il quale si è anche disposti a sacrificare la propria vita (dando per scontato che sia una lotta disinteressata). Può essere, per dirne uno solo, il caso di Martin Luther King, che sapeva perfettamente la fine che lo attendeva.
I due marò non appartengono certo alla prima categoria, visto che, stando anche alle parole di Staffan De Mistura (“La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo”), hanno probabilmente causato la morte di due pescatori e non stavano né eccellendo in qualche impresa guerresca, né combattendo per un’ideale – stavano solo adempiendo al proprio dovere, cosa che evidentemente non hanno fatto bene.
Se sono eroi loro, allora che dire degli altri marò ugualmente impegnati in missioni anti-pirateria ma che non finiscono in una prigione di Nuova Delhi? La verità è che Latorre e Girone non sono eroi in nessun modo. L’unica ragione per cui una certa retorica li definisce tali è perché sono italiani in divisa oggi prigionieri (al di là dei rientri occasionali o causati da malattia) in uno stato straniero e ostile.
Forse non c’è molto in comune, ma il caso dei due marò mi ricorda quello più lontano dei quattro contractors italiani in Iraq, dove lavoravano per una compagnia militare privata. È il 2004 quando vengono rapiti da un gruppo islamista. Lì per lì non si parla di eroi, ma quando Fabrizio Quattrocchi viene ucciso con un colpo alla testa (gli altri tre saranno invece salvati) e soprattutto quando si viene a sapere che prima di morire ha detto “vi faccio vedere come muore un italiano” ecco che l’etichetta giunge istantanea.
A parlare è l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini, che in un impeto patriottico dice: “Questo ragazzo ha cercato di togliersi il cappuccio e ha gridato: adesso vi faccio vedere come muore un italiano. E lo hanno ucciso. È morto così: da coraggioso, da eroe”. È sicuramente morto da coraggioso, ma che si possa definire “eroe” qualcuno che in altri tempi sarebbe stato definito un mercenario fa un po’ impressione. Come fa impressione che gli sia stata conferita la medaglia d’oro al valor civile.
Se i due marò non fossero sul punto di essere giudicati da un tribunale per omicidio sarebbero stati definiti eroi? Certamente no. Se Fabrizio Quattrocchi non fosse stato ucciso, ma si fosse limitato a svolgere il suo lavoro da contractor per poi tornare in Italia, sarebbe stato considerato un eroe? Sicuramente no. Gli eroi sono altri, stanno altrove. Bisognerebbe smetterla di accostare loro figure che di eroico non hanno assolutamente nulla. O secondo qualcuno Quattrocchi, Girone e Latorre devono stare a fianco di Ambrosoli, Falcone e Borsellino?
Per la nostra salute nazionale – e per la salute della nostra “religione laica” – è fondamentale che queste parole conservino un senso e non diventino preda delle ossessioni massmediatiche. Resta solo da capire perché in Italia ci sia così tanta ansia di definire eroe il primo malcapitato di turno. Forse perché di eroi veri e propri non se ne vedono da tanto tanto tempo.
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