Media
I mass media fanno paura. Il loro ruolo nella nuova politica criminale
La descrizione mediatica del fenomeno criminale è tema delicato, che implica sostanziali distinzioni a seconda della tipologia dei reati rappresentata: in termini generali, mass media e social media tendono ad occuparsi maggiormente di reati contro la persona rispetto ai reati economici e contro la pubblica amministrazione.
In particolare, corruzione e mafia occupano i giornali con manifestazioni tanto discontinue quanto eclatanti, in concomitanza con casi di cronaca giudiziaria in grado di scatenare un forte interesse del pubblico, peraltro destinato a scemare non appena trascorso il momento di “indignazione”.
Emblematico è il leading case italiano, lo scandalo Mani Pulite: nella fase iniziale delle indagini, la campagna di stampa superò e addirittura incoraggiò l’azione dei magistrati. Nell’estate del 1992 la copertura giornalistica aveva, infatti, già raggiunto livelli elevati: ad esempio, nel mese di luglio ben 22 prime pagine (su 31) del Corriere della Sera menzionavano vicende di corruzione. Eppure, a fine estate le richieste di autorizzazione a procedere del Parlamento erano solo 12 (l’8% dell’intera legislatura): l’apice dei procedimenti è stato raggiunto solo nella primavera-estate del 1993.
Gli effetti della poderosa campagna stampa sono noti: a quei tempi non esisteva Facebook e, pertanto, l’indignazione si manifestava de visu. È rimasto nella storia italiana l’episodio di Bettino Craxi, ripreso dalle telecamere mentre esce dall’hotel Raphaël, sotto una pioggia di monetine (ma anche banconote da mille lire, sassi, accendini e pacchetti di sigarette!) lanciate da una folla inferocita.
Altrettanto note sono le parole pronunciate dallo stesso Craxi in Parlamento, nel corso del celebre discorso con cui il leader del Psi affermò che “ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale”. Craxi parlò espressamente di “sistema criminale”, avanzando verso i propri “colleghi” una provocazione che rimase nella storia e al contempo confermando che anche a livelli elevati si giunge, prima o poi, a giocare la carta del “così fan tutti”.
Anche dopo Tangentopoli, è rimasto alto il coverage della stampa italiana verso i reati di corruzione. Lo studio recentemente pubblicato sulla rivista Comunicazione Politica[1] ha analizzato la copertura data al fenomeno, nel periodo dal 2004 al 2013, dai quattro principali quotidiani italiani (la Repubblica, Il Giornale, il Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore). Con ben 46.239 articoli, l’Italia si piazza al primo posto delle democrazie dell’Europa Occidentale per la più ampia copertura data a eventi legati alla corruzione.
Tuttavia, deve considerarsi che questo imponente numero di articoli è in realtà strettamente connesso con una serie (invero piuttosto limitata) di casi giudiziari divenuti, negli anni, casi di cronaca. Il coverage, infatti, procede per picchi in relazione ai “casi celebri”, come mostra il grafico (Figura 1), che ha inoltre il pregio di associare a detti casi il governo in carica.
Da tale studio emergono ulteriori dati che confermano l’approccio della stampa di fronte agli scandali di corruzione. Ad esempio, in relazione al picco del 2010 (ai tempi del Rubygate e del «Bunga Bunga») è stato accertato il picco di copertura da parte delle testate che, storicamente, si pongono maggiormente in contrasto e in difesa di Silvio Berlusconi (la Repubblica e Il Giornale).
Anche il Sole 24 Ore sembra caratterizzarsi per una sorta di “linea editoriale” in relazione ai fenomeni di corruzione: l’apice di coverage è stato, infatti, riscontrato nell’anno (il 2012) in cui il Parlamento ha approvato la Legge Severino e si è verificato lo scandalo che ha coinvolto una delle più importanti industrie italiane (Finmeccanica).
In sintesi, i giornali trattano la corruzione a seconda del pubblico di riferimento e si concentrano sul caso da prima pagina, approfondendo di rado il fenomeno con l’intento di rendere comprensibili i meccanismi e la trama di interessi (politici ed economici, pubblici e privati) che hanno condotto al compimento del fatto criminoso.
Una delle spiegazioni sta nel fatto che si tratta di una criminalità di complessa identificazione, che costituisce deriva di pratiche sovente socialmente accettate e apparentemente funzionali al sistema socio-economico esistente, oltre che diffuse (nella loro accezione apparentemente lecita) tra tutte le “classi” in cui la comunità può essere articolata (R. Bianchetti, La paura del crimine, Giuffrè, Milano 2018, p. 323).
Basti pensare a una certa “leggerezza” con cui vengono talora giudicati gli evasori, spesso considerati vittime delle vessazioni del fisco o, al più, dei “furbetti”; ovvero all’indulgenza diffusa verso chi, imbrigliato nella burocrazia, cerca di uscirne chiedendo qualche “favore” all’amico che lavora in ambito pubblico.
Scorrendo la home di Facebook e facendo un censimento, tra i nostri amici virtuali, degli articoli delle principali testate giornalistiche che trovano maggior condivisione, risulta che piuttosto che lo scatenarsi della rete per la notizia di un sindaco arrestato per mafia o per l’annuncio di un appalto pubblico “truccato”, è certamente più probabile l’attenzione morbosa alla cronaca di omicidi, stupri e furti in abitazione.
Anche il fenomeno mafioso non trova molto spazio sui giornali e ridotta condivisione sui social media, se non – come per la corruzione – in relazione al singolo caso di cronaca: per citare un esempio, tutti noi abbiamo letto almeno un articolo (e/o visto almeno un filmato) sul caso della testata sferrata da parte di Roberto Spada al giornalista della trasmissione Nemo. Sarebbe interessante confrontare il numero di articoli (e condivisioni degli stessi) relativo a quello specifico episodio, con il numero complessivo di notizie (e relativi “repost”) dedicato nel corso degli anni alle attività illecite del clan Spada.
Eppure, recenti studi (A. Parbonetti, M. Fabrizi, P. Malaspina, Caratteristiche e modalità di gestione delle aziende criminali, in Rivista di Studi e Ricerche sulla Criminalità Organizzata, Vol. 3, n. 1, pp. 47-66) hanno sfatato molti luoghi comuni in relazione alla diffusione della criminalità organizzata.
Anzitutto, è ormai chiaro che le aziende che fondano la loro produttività sul legame con la malavita, sono sempre più diffuse al nord Italia: l’unico territorio “pulito” è rappresentato dal Lago di Garda (escluse, ovviamente, le sponde!).
Mafia, peraltro, non vuol più dire solo “costruzioni”. Il grafico che segue mostra i settori in cui operano le aziende criminali, confrontando la loro distribuzione con quella delle aziende non criminali: i settori più “popolati” sono le costruzioni e le attività immobiliari; tuttavia vi è altresì una rilevante diffusione nel settore dei rifiuti e fornitura d’acqua. Accanto a queste aree “tradizionali”, le organizzazioni criminali sono presenti a livello trasversale rispetto a quasi tutte le attività economiche.
Infine, è stato chiarito che le aziende criminali operano come gruppi imprenditoriali sempre più strutturati: le classiche “aziende cartiere” che si occupano del riciclaggio del denaro accumulato attraverso traffici illegali sono sempre più spesso parte di gruppi complessi costituiti anche da “aziende di supporto”, caratterizzate da bassissima redditività, alta liquidità e costi molto elevati per mezzi e servizi (che verosimilmente sono messi successivamente a disposizione dell’organizzazione); e infine dalle insospettabili “aziende Star”, dotate di maggiori dimensioni, elevata redditività e investimenti in partecipazioni (ovvero aziende di successo, utilizzate per creare connessioni con gli ambienti istituzionali e la società civile).
La criminalità organizzata è, evidentemente, un fenomeno sempre più diffuso, caratterizzato da una evoluzione sempre più radicata, che infiltra in maniera sistematica ed estesa il tessuto economico. Tuttavia, a giudicare dal coverage dedicato dai media, si tratta di un argomento che riscuote poco successo nel pubblico di riferimento e, pertanto, non meritevole di approfondimento, di denuncia seria e proporzionata.
Non solo. La lotta alla mafia è rimasta sostanzialmente assente dai programmi elettorali delle ultime elezioni politiche. Stesso discorso vale per la lotta alla corruzione: i programmi elettorali erano sostanzialmente privi di misure concrete per ridurre il fenomeno, che però è stato citato su Facebook in misura importante e prevalente da parte dei partiti che hanno acquisito maggiore consenso alle urne.
L’attenzione selettiva ai crimini sulla scorta del cosiddetto “populismo penale” porta a tralasciare, salvo casi eccezionali, i reati come le corruzioni, i peculati, i falsi in bilancio, le frodi fiscali, i riciclaggi, i reati ambientali (ovvero i crimini che attentano alla “sicurezza sociale”), per concentrare l’attenzione su quella che è stata definita “sicurezza pubblica”, i cui massimi attentatori sono – non c’è bisogno di specificarlo – stranieri, emarginati, disoccupati (R. Bianchetti, La paura del crimine, Giuffrè, Milano 2018, p. 524).
Pare emergere una scelta ponderata circa la tipologia di crimine cui conferire rilevanza: i criteri sono evidentemente quelli della “appetibilità” del reato rispetto alla reazione emotiva che ci si attende dal pubblico di lettori, la “spendibilità” commerciale e politica del reato, che viene spettacolarizzato in un cortocircuito pericolosissimo (R. Bianchetti, La paura del crimine, Giuffrè, Milano 2018, p. 323).
Si fa riferimento alla circolarità delle politiche penali: la percezione del crimine è indotta dalla rappresentazione mediatica e il crime control è utilizzato come strumento di consenso politico.
Un tempo i media venivano considerati uno strumento della politica, l’ausilio imprescindibile con cui i governanti veicolavano il messaggio elettorale, contemporaneamente servi e guardiani rispetto al potere. Oggi la distinzione di ruoli è divenuta labile e i media sono “fondamentalmente inscritti nel processo politico”: l’azione politica avviene all’interno dello spazio creato dai media, nell’ambito delle linee di confine stabilite dagli interlocutori mediatici (R. Bianchetti, La paura del crimine, Giuffrè, Milano 2018, p. 151).
In particolare, i mass media creano la paura – e la conseguente esigenza di protezione – e assecondano le aspettative mediaticamente condizionate dell’opinione pubblica rispetto alla criminalità. Le paure trovano così un radicamento sempre più profondo e finiscono per trasformarsi da sensazioni caratterizzate da irrazionalità a convinzioni munite della più ostinata consapevolezza: la risposta politica a questo bisogno è una soluzione penale semplice, chiara ed emotivamente rassicurante. Ciò, nonostante l’esigenza di protezione sia in origine fuorviata e la soluzione offerta sia, a ben guardare, concretamente non risolutiva.
Assistiamo pressoché quotidianamente al proliferare di una legislazione penale “simbolica”: si moltiplicano le iniziative legislative adottate sull’onda del caso di cronaca, create nell’affanno di dare una risposta immediata e rassicurante al cittadino comune indignato o terrorizzato.
A ciò si aggiunga che spesso le norme penali demagogiche rimangono largamente inapplicate, con la conseguenza che l’iniziale rassicurazione si trasforma ben presto in frustrazione e, di conseguenza, aumenta la richiesta di dimostrazione di “forza” politica, esigenza che viene naturalmente cavalcata dai media (ormai lo sappiamo, il malcontento genera un numero esponenziale di clic). Si instaura così un circolo vizioso, rotto soltanto dall’individuazione di un nuovo “obiettivo”, di una nuova paura.
Il meccanismo sopra descritto è frutto di un pensiero (civico e politico) sempre meno critico e sempre più basato su certezze apparentemente incrollabili. I vanti principali degli uomini politici che, in Italia e all’estero, stanno stravolgendo i canoni della politica moderna sono la risolutezza e la concretezza: principi condivisi con fermezza dall’uomo comune che trae la sua conoscenza dai media. Il pragmatismo è divenuto l’indice di affidabilità, mentre chi oppone qualche incertezza, chi osa interrogarsi sulla validità di certe scelte, è tacciato di “buonismo”, di incoscienza, di colpevole lontananza dalla realtà.
La vera sfida, oggi, consiste dunque nella lotta contro l’impoverimento della consapevolezza, la difesa del raziocinio che ha reso grande la nostra civiltà, la ricerca di un’informazione completa, accurata e anche complessa, che stimoli la riflessione ben prima e più che il giudizio. Perché quasi mai esiste una visione unica e univoca dello stesso fatto, sicché dall’angolo visuale dipendono le opinioni: escluderne la molteplicità ci impoverisce; lo sforzo di prenderle in considerazione tutte, anche quelle che “di pancia” ci fanno sentire scomodi, ci rende umani.
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