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Piccola enciclopedia del giornalismo che cambia
Che il giornalismo online annaspi a trovare la strada per un modello economico sostenibile lo vediamo ogni giorno: il proliferare degli ormai canonici gattini sulle pagine Facebook dei quotidiani più noti d’Italia ne è un chiaro esempio; così come le mostruosità generate dalla ricerca spasmodica della parola chiave azzeccata da dare in pasto a Google. Sono due facce della stessa medaglia: da una parte si punta su contenuti il più facili possibile, che possono incuriosire chiunque ci incappi e spesso e volentieri prodotti in termini di video o gallery, in modo da ottimizzare l’inserimento della pubblicità o moltiplicare le pagine visualizzate; dall’altra parte si punta sull’aspetto più tecnico del giornalismo online, il SEO, che permette di conquistare una marea di visualizzazioni durante alcuni avvenimenti specifici (per esempio, durante le elezioni) e in generale consente di ottenere grossi risultati – in termini di pageviews – sfruttando il desiderio degli utenti di internet di avere informazioni più approfondite su alcuni aspetti delle informazioni all’ordine del giorno (da qui l’abuso dei “chi è”, “cosa sono”, “quando”, “quanto”, ecc. nei titoli).
Chi prova a seguire modelli diversi, rischia grosso. È notizia di pochi giorni la chiusura di GigaOm: sito di riferimento per gli appassionati di tecnologia con sei milioni e mezzo di visitatori unici al mese, ha provato nell’impresa di sostenere la società attraverso la sola pubblicità, sperimentando nell’ultimo periodo anche i “native ads”. Ma la pubblicità, da sola, non basta sostenere un sito ambizioso come GigaOm: fondato nel 2006, dotato di una redazione vera e propria e che si avvaleva di firme prestigiose come quella di Mathew Ingram, ha probabilmente pagato la tanta concorrenza nel settore tech e l’incapacità della raccolta pubblicitaria online di crescere al punto da sostenere un progetto di questo tipo. GigaOm, semplicemente, non era più in grado di pagare i suoi creditori, e lo ha ammesso con una trasparenza e chiarezza che, comunque, restano una lezione.
Perché è avvenuto tutto questo? Quand’è che l’informazione online si è abbassata a tal punto da dare la priorità alle foto di gattini e ai video LOL da “colonna destra” che poi finiscono a intasare le nostre bacheche Facebook? Quand’è che uno strumento come Google – che serve per facilitare la vita agli utenti attivi, quelli che cercano approfondimenti rispetto alle semplici news – è diventato la testa d’ariete utilizzata selvaggiamente da tecnici/giornalisti, che hanno il solo obiettivo di piazzare la keyword migliore senza alcuna volontà di dare un’informazione approfondita, e a volte nemmeno corretta?
Ci sono pochi dubbi sulle cause della degenerazione dell’informazione online che circola attraverso Facebook, Twitter e Google (ovvero gli strumenti principe della loro diffusione): tutti i tentativi per guadagnare con il giornalismo sul web che non passano dalla pubblicità sono falliti. E siccome il valore di buona parte della pubblicità sui siti internet è proporzionale alle visualizzazioni raggiunte, il gioco è fatto: si punta sulle pageviews a ogni costo con le mostruosità che ne conseguono. D’altra parte: il paywall (la modalità per cui si può leggere un articolo solo in seguito al pagamento di una piccola quota) è fallito e non lo sperimenta quasi più nessuno; la sottoscrizione, sotto forma di donazione libera o di abbonamento con alcuni benefit (tipicamente un ebook al mese da scaricare gratuitamente o simili), non ha portato grossi risultati e alcune forme ibride tra giornalismo e pubblicità (come quella dei native ads) sono ancora agli stadi primordiali.
Le buone notizie, per il momento, sono due. Il modello pubblicitario di alcuni siti che puntano sulla massa indifferenziata degli utenti sta iniziando a dimostrare di essere sostenibile economicamente; mentre per quanto riguarda il giornalismo di qualità la buona nuova è che la sperimentazione continua senza sosta, alla ricerca di un modello di business che permetta anche alle inchieste, ai long-form, ai reportage di trovare una sua via nel mondo online. Nonostante le difficoltà immense di cui si parla quotidianamente, ci sono davvero alcune ragioni per pensare, come ha detto James Harding, direttore di Bbc News, che questo sia il “momento più eccitante di sempre per occuparsi di giornalismo”.
I due modelli del giornalismo online: la differenza base
Prima di approfondire i vari modelli di business e le varie sperimentazioni che, soprattutto oltreoceano, stanno faticosamente trovando la loro strada, è il caso di soffermarsi un attimo su un aspetto base, cioè sulle due diverse modalità con cui le varie testate si approcciano al mondo del giornalismo online.
Da un lato la modalità mainstream, quella che ancora oggi basa in buona parte i propri ricavi sulla pubblicità e che ha interesse quindi a moltiplicare il più possibile la quantità di pageviews realizzate. È la modalità più nota, quello che ha fatto le fortune di BuzzFeed e dell’Huffington Post Usa (per fare solo due esempi) e che, spingendo su contenuti gratuiti che possano attrarre il più alto numero di utenti, punta tutto sulla massa indifferenziata di fruitori, generando così quella quantità immensa di video di gattini e simili, notizie di gossip, breaking news il più “clamorose” possibile. È la modalità che – in nome di una sostenibilità economica che, come vedremo, sta finalmente diventando una realtà – ha spinto molto in basso la qualità dell’informazione giornalistica online.
Dall’altra parte, però, c’è un numero sempre più alto di testate che sfrutta quelle che sono le caratteristiche peculiari di internet, ovvero la possibilità di individuare nicchie di utenti più o meno consistenti da fidelizzare attraverso contenuti di qualità: reportage e inchieste in primis. Il problema in parte ancora non superato è, ovviamente, quello della sostenibilità economica. Il giornalismo di qualità costa, ma allo stesso tempo non produce i numeri del gossip sulle star di Hollywood. La via per la sostenibilità economica, in questi casi, passa quindi da una sola strada: invogliare l’utente a pagare per quanto sta leggendo. L’unica alternativa, con tutti i suoi limiti, è quella del mecenatismo, che per quanto particolare sta dando vita a esperimenti interessanti.
Sei modelli per il giornalismo online
Virale ma non solo, come guadagna BuzzFeed
100 milioni di dollari di entrate (stando ai dati di ottobre 2014), 700 dipendenti, un traffico cresciuto nel corso dell’anno passato del 76% e che è arrivato a quota 75 milioni di visitatori unici al mese (secondo i dati ComScore, almeno il doppio secondo le fonti interne). Ma soprattutto, stando a quanto detto dalla portavoce della compagnia, BuzzFeed è diventato redditizio, incassa di più di quanto spende. Non sono stati rilasciati dati precisi in merito, ma non ci sono ragioni per non dare credito a quanto affermato nella mail inviata ai dipendenti dal fondatore Jonah Peretti e divulgato dal Wall Street Journal.
Come BuzzFeed abbia raggiunto questi numeri impressionanti è ormai stranoto, una sorta di case study per chiunque voglia intraprendere quella strada: video virali (“Questo video cambierà completamente il vostro modo di vedere le puzzole”); una marea di liste (“Dieci modi in cui le persone si divertivano prima che nascesse la televisione”); articoli SEO (“Come contare le carte nel blackjack); notizie pronte a fare il giro dei social network alla velocità della luce (“Le persone su Twitter che pensano che Macklemore si sia unito all’Isis”) e quant’altro abbiamo ormai imparato a conoscere come moltiplicatore immediato degli accessi su internet.
Ma come fa a guadagnare BuzzFeed, dal momento che sulla sua homepage, e all’interno dei suoi articoli, non ci sono pubblicità, banner e ovviamente nemmeno gli ormai dimenticati (e odiosi) pop-up? La gran parte dei guadagni di BuzzFeed deriva dai cosiddetti “native ads”. Si tratta di contenuti sponsorizzati che assomigliano in tutto e per tutto a dei normali contenuti di BuzzFeed, che non pubblicizzano direttamente un prodotto, ma che comunque ne contengono il marchio. È più semplice fare un esempio pratico. L’articolo “Dieci emoji dell’estate che dovrebbero sicuramente esistere” è sponsorizzato da StarBucks, ma l’elenco in sé non ha niente a che fare con il caffè e non si differenzia in alcun modo dai contenuti normali di BuzzFeed.
E però, sulla destra compare un grosso banner della pagina Facebook di Starbuck e nel sommario che precede l’elenco compare una scritta del tipo “prendi su il tuo frappuccino preferito e piazzati al sole”. La differenza con la pubblicità tradizionale, che viene ormai peraltro bloccata da un numero enorme di utenti attraverso Adsblock ed estensioni simili per i browser, è che le persone cliccano su questi contenuti, perché incuriositi e per niente infastiditi dal fatto che sia sponsorizzato. Stando alle cifre riportate da Techcrunch, questo genere di pubblicità genera 120 milioni di euro di guadagni per BuzzFeed, consentendo al sito di rinunciare in toto alla pubblicità tradizionale, di trovare una via per la sostenibilità economica e di continuare a espandersi (grazie anche ai 50 milioni di dollari che lo scorso anno sono piovuti come investimento da una compagnia della Silicon Valley: Andreessen Horowitz).
Il Washington Post di Bezos: milioni di euro e di pageviews in attesa di capire come guadagnare
Il quotidiano della Capitale, uno dei più antichi degli Stati Uniti, quello del celebre scoop del Watergate e, come molti altri, un giornale in grande crisi di vendite. Il Washington Post è tornato a essere sulla bocca di tutti nell’agosto del 2013, quando è stato acquistato da Jeff Bezos, multimiliardario fondatore di Amazon, per 250 milioni di dollari. Acquistato, attenzione, direttamente da Bezos, non attraverso Amazon. Per quale ragione mai investire una cifra simile in un business come quello della carta stampata, che sembra non avere nessun futuro?
La ragione, stando a quanto detto dallo stesso Bezos in una conferenza organizzata da Business Insider nel dicembre 2014, è una sola: c’è speranza per il Post, ma questa speranza passa attraverso il digitale, non attraverso il quotidiano stampato. Anche perché, come ha affermato il nuovo editore del Post, “non so nulla di editoria, ma conosco un paio di cose su internet. Questo, assieme alla mia disponibilità finanziaria, è la ragione per cui ho comprato il Washington Post”.
Ok, ma allora qual è la strada per il successo? La cosa più interessante, e più strana, di tutta questa operazione è che Jeff Bezos non ha comprato il Post avendo già in mente come arrivare a renderlo di nuovo un business redditizio; è semplicemente convinto che si possa fare, passando da internet. La base di partenza sono i 18,8 milioni di visitatori unici al mese. A questa base si aggiungono gli investimenti che Bezos continua a garantire per implementare la piattaforma tecnologica e le potenzialità del sito e le sperimentazioni continue per trovare un modo nuovo per generare ricavi.
Da quanto si sa, per il momento siamo ancora alla fase di “distruzione creativa”, ma qualche traccia concreta di queste sperimentazioni inizia a saltare fuori e, guarda un po’ il caso, passa da una partnership tra Amazon e il Post. A novembre 2014 è stata rilasciata una app gratuita per Kindle (l’e-reader prodotto da Amazon) che consentirà di ricevere sul proprio device l’edizione digitale del Post, pensata appositamente per questa app, per un periodo di sei mesi. Al termine di questo lasso di tempo, con un solo dollaro si riceverà il Post via app per altri sei mesi.
Messa così, non sembra nulla di rivoluzionario. Ricorda le edizioni digitali dei quotidiani che si possono acquistare attraverso le app per smartphone e tablet, ma utilizzando Kindle. Bezos, però, sembra puntare forte su questa partnership con Amazon, tanto da avere assunto circa 15 persone per lavorare specificamente sull’ottimizzazione di questo progetto. Non c’è fretta, Bezos è disposto a sostenere finanziariamente il Post per il tempo necessario, ma è evidente come il suo non sia un vezzo da miliardario mecenate: l’obiettivo è trovare una via per rendere uno dei più antichi quotidiani degli Stati Uniti di nuovo in grado di generare guadagni, probabilmente, in un futuro non troppo lontano, anche abbandonando la carta.
All’interno di questa carrellata di modelli di business, l’acquisto di uno storico quotidiano da parte di un miliardario convinto di poter sfruttare le sue competenze nel mondo online per farlo tornare in attivo non sembra proprio essere un modello sistematico. E però, la salvezza delle testate storiche tutte (comprese quelle italiane) passa proprio da investimenti importanti che consentano di sperimentare nuove vie per sfruttare la notorietà del nome e la qualità del prodotto, nel tentativo di diffondere sempre più le edizioni digitali del quotidiano, aumentare non solo le visite, ma anche il tempo passato sul sito e trovando una via per aumentare drasticamente gli abbonamenti alla versioni “cross” tra sito ed edizione digitale, come quella a cui sta lavorando il team del Post che si occupa della sperimentazione su Kindle.
I costi del giornalismo investigativo e la salvezza del mecenatismo
La strada intrapresa da Jeff Bezos è quella di una sorta di “mecenatismo temporaneo”, in attesa che si individui un modello migliore. Ma per il mondo del giornalismo di qualità su internet trovare magnati disposti a investire a fondo perduto quantità ingenti di denaro è una delle opzioni più interessanti. L’ascesa degli imprenditori della Silicon Valley ha creato una new wave di multimilionari, ancora relativamente giovani e spesso interessati a donare parte dei loro immensi guadagni in tutto ciò che può avere una funziona pubblica. Il giornalismo rientra in questa categoria. Soprattutto il giornalismo d’inchiesta, quello “watch-dog”, cane da guardia contro gli abusi di chi è al potere. Giornalismo per eccellenza, ma che richiede soldi e tempo. Due fattori di cui il mondo online scarseggia.
Il rischio di estinzione del giornalismo d’inchiesta è uno dei timori più diffusi tra chi ha a cuore il futuro del quarto potere: come coniugare da un punto di vista economico le inchieste con il giornalismo online (caratterizzato da velocità, bassi costi e alta resa)? In attesa che si trovi un modello sostenibile (vedremo tra poco che qualche esperimento di successo in realtà già c’è), sono proprio i multimilionari della Silicon Valley – e non solo – a dare una chance a chi, altrimenti, non avrebbe la possibilità di scovare il suo Watergate. Il caso per definizione è quello di The Intercept, testata lanciata nel febbraio 2014 grazie ai 250 milioni di dollari garantiti da Pierre Omidyar, il fondatore di eBay, attraverso la sua First Look Media.
Come noto, l’aspetto più importante di The Intercept è l’uomo chiamato a dirigerlo: Glenn Greenwald, avvocato diventato blogger e poi giornalista del Guardian, celebre per lo scoop del Datagate che ha svelato le operazioni di spionaggio della Nsa grazie alle rivelazioni di Edward Snowden. Per capire il taglio del sito, il primo articolo di The Intercept mostrava le foto delle sedi di NSA, NGA e NRO (tre strutture della intelligence americana), ci sono poi stati scoop sulle vaghe e confuse regole usate dagli Usa per determinare chi sia o non sia un terrorista, e, recentemente, come spie americane e britanniche siano entrate nei sistemi informatici delle compagnie produttrici di sim card per rubare i codici e forzare la privacy delle comunicazioni telefoniche.
Un lavoro importante e indispensabile, ma che si sostiene economicamente grazie alle sole forze del fondatore di eBay. A dire il vero, proprio poche settimane fa c’è stata una seria polemica lanciata dal sito AdWeek, che ha “svelato” la volontà della compagnia First Look Media di far diventare la creatura di Greenwald un sito in grado di generare profitti. Il che potrebbe snaturarlo, rendendolo dipendente da pubblicità e quant’altro. In verità, la cosa è stata rapidamente smentita: il portavoce di John Temple, presidente di First Look Media, avrebbe fatto solo riferimento alla possibilità di esplorare nuove modalità di generare ricavi – pur rimanendo ancora tutto solo nel novero delle possibilità – e senza nemmeno la volontà di diventare for profit. Al momento, per dire quanto ancora sia tutto allo studio, The Intercept non accetta neanche donazioni libere da parte di chi volesse supportare il giornalismo investigativo; da qui alla pubblicità il passo è ancora molto lungo e probabilmente non c’è intenzione di compierlo.
Altro esempio, più in piccolo, è quello di ProPublica: sito di giornalismo investigativo che si concentra su reportage internazionali (ne è apparso recentemente uno sulla Liberia) così come su questioni più prettamente domestiche (è il caso dell’inchiesta sulle autorizzazioni facili alle scuole private). Un sito che, però, genera numeri piccoli (nel 2014 attorno ai 500mila visitatori unici al mese, quanti ne fa in un singolo giorno una testata online di medie/grandi dimensioni in Italia); e questo a ulteriore dimostrazione della insostenibilità economica del giornalismo d’inchiesta al di fuori del mecenatismo. 45 giornalisti impiegati a scovare storie che abbiano la “forza morale” (così dicono loro) per essere raccontate, parecchi premi vinti (tra cui un Pulitzer nel 2010) e un business che si regge sull’impegno a finanziare l’attività da parte della Sandler Foundation, ai quali si aggiungono le donazioni di chi desidera dare una mano e anche la possibilità di ospitare pubblicità (nella homepage c’è in effetti un banner di Adsense, che porterà ricavi più o meno trascurabili).
La cosa importante, però, è che anche nell’epoca del web il giornalismo investigativo è vivo. Il problema è che basarlo interamente sulla benevolenza di magnati rischia non solo di fornirgli delle basi poco solide (tutti crollerebbe una volta che venissero ritirati i finanziamenti), ma anche di non stimolare a sufficienza la redazione ad andare alla ricerca dei modi più efficaci per veicolare i loro scoop. Perché, in fondo, il giornalismo investigativo è tanto più importante quanto più è diffuso; e i numeri di ProPublica (nonostante un Pulitzer) non sono molto incoraggianti.
La via del crowfunding
A meno che non si trovi un magnate disposto a investire milioni di euro a fondo perduto, quindi, è abbastanza difficile trovare qualche editore online intenazionato a spendere, per fare un esempio, qualche migliaia di euro per un reportage sullo Stato Islamico quando c’è la certezza che una news di gossip pagata tra i 5 e i 15 euro avrà una resa uguale, se non migliore, in termini di visualizzazioni. Se il denaro necessario a finanziare un reportage non si recupera dall’alto, allora forse è il caso di cercarlo in basso, al livello degli utenti: la cifra può essere a portata di mano nel momento in cui mille persone versano cinque euro a testa per poter leggere un’inchiesta che ritengono potenzialmente interessante. È la via del crowdfunded journalism.
Come sempre, quando si parla di crowdfunding, a dettare la linea è Kickstarter, celebre piattaforma statunitense nata per raccogliere soldi per finanziare start up più o meno promettenti e che oggi viene utilizzata anche per progetti legati al giornalismo. Nel 2014, grazie a Kickstarter, sono partiti più di 200 progetti: reportage e inchieste, in primis, ma anche riviste studentesche, radio, siti e quant’altro. I soldi, effettivamente, arrivano: quasi 9mila dollari per raccontare con un reportage work-in-progress (in cui il lavoro prosegue non-stop finché arrivano i soldi necessari) la scomparsa del Rio Grande o 1.500 dollari per raccontare la vita nelle città più povere degli Usa.
Il cambio di paradigma è evidente: si è abituati a comprare un prodotto finito, qui si compra un’idea, immaginando che il risultato sia quello promesso e senza nemmeno sapere dove verrà pubblicata l’inchiesta, se sarà su online o cartaceo, su una testata importante o su un blog personale. E ovviamente potendo solo sperare che la qualità sia elevata. A questi limiti, si aggiunge la confusione che regna su Kickstarter, in cui appaiono quotidianamente una marea di progetti spesso e volentieri tutt’altro che interessanti. È un limite inevitabile nel mondo del crowdfunding, ma che diventa particolarmente evidente nel momento in cui si applica al giornalismo (scrivere un articolo è molto più facile che lanciare una start-up).
L’idea, però, ha sicuramente delle potenzialità, che iniziano a venire sfruttate meglio da siti, appena sorti e cui destini sono ancora da valutare, che si dedicano esclusivamente al crowdfunded journalism; tra questi varrà la pena di tenere d’occhio soprattutto Beacon Reader.
Mediapart: giornalismo investigativo for-profit (e in attivo)
In mezzo a una miriade di esperimenti che provengono dagli Stati Uniti, la cosa che potrebbe renderci più orgogliosi in quanto europei è che il progetto che sta ottenendo i risultati migliori, più concreti e più stabili dal punto di vista finanziario arrivi dal Vecchio Continente, dalla Francia. Si tratta di Mediapart, testata online di giornalismo investigativo fondata da Edwy Plenel, ex direttore di Le Monde. Lanciato nel 2008, a portare al successo il sito online sono stati inizialmente due fattori: la notorietà di Plenel e lo scoop sullo scandalo Bettencourt relativo ai finanziamenti segreti a Sarkozy, di poco seguente il lancio del sito.
E così, Mediapart è riuscita nell’impresa impossibile per definizione: convincere un numero sufficiente di persone ad abbonarsi a una testata online rendendo la società sostenibile da un punto di vista economico. 100mila abbonati, che pagano 90 l’euro l’anno per leggere le inchieste di Mediapart (i non-abbonati possono leggere solo le prime righe), una redazione di trenta giornalisti che prendono lo stesso stipendio che ricevevano nelle testate tradizionali per cui lavoravano prima di iniziare quest’avventura. Soprattutto, giornalismo allo stato puro: niente pubblicità, niente video curiosi, niente articoli leggeri.
Il risultato è che nel 2013 Mediapart è andata in attivo con utili pari al 15%, ottenendo, dal punto di vista della diffusione, risultati anche migliori rispetto a quelli di alcune importanti testate tradizionali. Soprattutto, il miracolo di Plenel è quello di aver trovato un modo per coniugare qualità, ricavi e diffusione. Senza cedere a nessun compromesso. La sfida più difficile, adesso, è riuscire a resistere alla prova del tempo; ma è stato quanto meno dimostrato che “si può fare”.
L’importanza del brand e del giornalismo di nicchia: il caso Politico.com
Ogni volta che un modello diventa imperante, c’è la possibilità che si apra uno spazio anche per un modello che segua delle logiche diametralmente opposte. E se nel mondo del giornalismo online, pur con le tante eccezioni che abbiamo visto, il modello base è quello pubblicitario, basato sulle news più attraenti per un numero il più alto possibile di utenti, ecco che inevitabilmente si apre uno spazio anche per il suo esatto contrario: un sito di nicchia, che si occupa di un argomento solo, che non punta alla massa indifferenziata ma, al contrario, sugli influencer: esperti di un determinato settore che, attraverso articoli, conferenze, anche post su Facebook e Twitter sono in grado di dettare il trend. Gli opinion leaders, insomma; persone spesso e volentieri dotate di buone disponibilità economiche e disposte a spendere per mantenere il loro status e le loro competenze.
Puntare su di loro, essere in grado di fornirgli le ultime notizie, nel modo più approfondito e affidabile possibile, sul tema che a loro interessa di più, può essere un ottimo modello di business. Ancor più se si è in grado di farsi pagare. Questo è esattamente il modello di business seguito da Politico.com.
Politico si occupa di una sola cosa: quanto avviene a Washington. Nei corridoi di Capitol Hill e della Casa Bianca, nelle stanze dei lobbisti, nei luoghi in cui vengono prese le decisioni che influenzeranno la vita di tutti gli statunitensi. Non si occupa di nient’altro. Fondato nel 2007, racconta ogni giorno prima degli altri, meglio degli altri, più approfonditamente degli altri quanto avviene nella capitale. E di conseguenza è diventata una lettura obbligata per tutti gli appassionati di politica, ma anche per tutti quelli che hanno interessi economici che possono risentire o avvantaggiarsi da quanto viene deciso nelle stanze dei bottoni.
Per quanto riguarda i semplici appassionati, Politico offre gratuitamente la versione base del sito. Che non è una lettura di poco conto, visto che quotidianamente pubblica decine di storie che raccontano ogni aspetto della politica statunitense e dà una visione da insider ineguagliabile per chiunque sia interessato alla “politics”: le campagne elettorali, le alleanze, le strategie di democratici e repubblicani. Con 5 milioni di visitatori unici mensili, Politico.com riesce a garantire il 50% dei suoi introiti attraverso il modello pubblicitario.
Ma un altro 40% deriva da PoliticoPro, che è il vero fiore all’occhiello di questo modello di business ed è quello pensato per gli influencer: persone e organizzazioni che hanno bisogno di sapere subito cosa sta succedendo, e di conoscere tutti i dettagli. Per loro, ovviamente, la nicchia non è più nemmeno la sola politica; ma alcuni settori specifici della politica. E infatti PoliticoPro (che conta più di mille organizzazioni iscritte) è diviso in una decina di settori, che vanno dall’agricoltura, ai trasporti, al sindacato, alla tecnologia, al commercio e così via. Per capire a che livello di competenza siamo, basta pensare che il dipartimento di Educazione del Congresso era sul punto di pagare 25mila euro l’anno per l’iscrizione al canale “Education” di Politico (abbonamento poi disdetto proprio per il prezzo troppo alto).
E il restante 10%, da dove arriva? Dagli eventi organizzati su temi specifici con ospiti del calibro di Denis McDonough, braccio destro di Barack Obama alla Casa Bianca, o il sindaco di Londra Boris Johnson; eventi sempre sponsorizzati da compagnie come Microsoft o Bank of America e che spesso prendono la forma di vere e proprie conferenze (come l’annuale State Solutions Conference, che riunisce i governatori dei vari stati per fare il punto della situazione), per partecipare alle quali, ovviamente, si paga.
Tutto questo permette di mantenere una redazione di oltre 400 persone, di cui 200 giornalisti e di generare ricavi enormi, in termini di decine di milioni di dollari, in crescita del 25% nel 2014 e nettamente in positivo. E ora si punta a espandere il modello anche in Europa: in primavera dovrebbe vedere la luce Politico Europe, in lingua inglese e, più avanti, anche in tedesco.
Il modello di business di Politico, quindi, ha tre teste: pubblicità sul sito generalista; sottoscrizioni per chi è disposto a pagare (tanto) per avere le informazioni che contano; eventi a pagamento. E il fatto che Politico si sia ormai creato la fama di lettura obbligata l’ha reso un vero e proprio brand. Un marchio celebre, il miglior promotore di se stesso (citato anche in House of Cards). Non un sito su cui si finisce cercando informazioni, ma un sito su cui si va per avere le informazioni prima degli altri.
La sostenibilità del modello mainstream e la salvezza del giornalismo di qualità
Da un certo punto di vista il giornalismo è già salvo. La notizia che BuzzFeed è andato in attivo, così come si dice anche dell’Huffington Post Usa, rappresenta un passo avanti importante. Il problema è come si sia riusciti a rendere sostenibile questo modello: notizie virali, uso spregiudicato del SEO, collaboratori pagati pochissimo con l’eccezione di qualche nome importante, migliaia di news pubblicate ogni giorno spesso e volentieri riciclando quanto pubblicato altrove, video, gallery e altri contenuti pensati per attrarre un pubblico il più generalista possibile, addirittura (è la nuova frontiera) articoli brevi scritti direttamente da computer/robot (tipicamente, le previsioni del tempo o notizie sui terremoti). Insomma, tutto quello che può servire a tenere bassi i costi e ad aumentare il più possibile le visualizzazioni è ben accetto. La pubblicità può bastare a sostenere questo modello, soprattutto se si imparerà a usare bene lo strumento dei native ads. Che non è il male, è anche meglio, sotto molti punti di vista, dei publiredazionali a cui siamo abituati sulla carta stampata (per non parlare delle marchette pure e semplici). L’importante è che sia chiaro sempre che si sta leggendo un contenuto sponsorizzato, se poi è pure interessante, tanto meglio.
Quello che interessa di più agli addetti ai lavori, a chi spera di poter svolgere un lavoro giornalistico di qualità, è però capire da quale strada passa la salvezza economica dei reportage, delle inchieste e dei siti che su questo puntano. Il crowdfunding o i mecenati? Le versioni premium per pochi o le donazioni? Il merchandising o l’organizzazione di eventi? La risposta, pur senza possedere nessuna sfera di cristallo, potrebbe essere: un mix di tutto questo. La lezione che si apprende da alcuni esperimenti è che il brand – così come è sempre stato per quotidiani, settimanali e mensili da edicola, da tenere sotto il braccio per mostrare l’appartenenza a una certa comunità – è un aspetto fondamentale. Una testata deve partire dalla costruzione della sua reputazione, elemento indispensabile per poter poi puntare su aspetti che non siano le pure e semplici visualizzazioni. Un’identità forte e contenuti di qualità permettono di fidelizzare il lettore, che torna direttamente sulla homepage senza bisogno di affidarsi troppo alla viralità e al SEO (parliamo, ovviamente, di testate molto diverse da BuzzFeed e Huffington Post).
Ma soprattutto l’aspetto del brand può essere il punto di partenza per fare sì che una testata riesca a generare introiti anche in modi non direttamente legati ai suoi articoli: merchandising, libri, organizzazione di eventi sponsorizzati. Se poi si riesce a convincere gli utenti a pagare con donazioni libere (come fa per esempio Wikipedia) o ad abbonarsi per ottenere le edizioni premium – che devono davvero offrire qualcosa in più, com’è nel caso di Politico –, ecco che c’è una speranza che nel futuro il giornalismo potrebbe non considerare più “online” e “qualità” come due parole inconciliabili.
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