Media
Giornalismo. L’ultimo ‘selfie’
Sulla Marmolada crolla un pezzo del ghiacciaio: il bilancio è di 11 persone, tra deceduti e dispersi. Sui media – minuto dopo minuto – compaiono i nomi e le età delle vittime. Di minuto in minuto, i siti, le prime pagine vengono riempiti con i riferimenti alle loro professioni, si racconta delle loro passioni carpite dai loro stessi racconti affidati ai profili Facebook o Twitter, Instagram o Linkedin, Tik Tok o Whatsapp. Saccheggiati a piene mani, ‘arraffando’ di tutto, specialmente foto: soprattutto l’ultima foto. L’ultimo ‘selfie’ pubblicato pochi minuti prima della morte. Come quello del 27enne, travolto dal seracco di ghiaccio, il cui volto sorridente ha fatto immediatamente il giro del Web e, da giorni, continua a comparire sulle pagine di carta. Immagini prese e pubblicate, così. Subito rilanciate sui social su cui si commenta come si commenta sui social: spazio libero in cui tutti sono esperti di qualsiasi cosa e si sentono in diritto, se non in dovere, di elargire patenti di capacità o incapacità. Lo ‘sbattere’ quell’ultimo ‘selfie’ in prima pagina – alla luce, poi, del prevedibile dibattito – per me, non è informazione. O se lo è non è buona informazione: cosa porta al racconto, quell’immagine, se non emotività? L’informazione è – in prima battuta – racconto dei fatti. Secco e il più puntiglioso possibile date le notizie che arrivano man mano. Il delineare lo scenario per far capire, comprendere, quello che è successo. Poi ci sarà il tempo per individuare motivi, cause, sviluppi. Ma quel ‘selfie’, quelle foto, cosa aggiungono se non emozioni? Non servono che ad aprire un altro capitolo, solo ed esclusivamente emotivo in cui si da spazio ai soccorritori per indugiare sul racconto dei corpi straziati, soffermandosi – anche per giorni – su quanto siano stati dilaniati dalle pietre e dal ghiaccio. Si da voce ai parenti per valutare il loro choc, per dire se la reazione di madri o padri, fratelli e sorelle, nonni e nipoti sia stata più o meno composta o dignitosa, come se ci fosse una classifica del dolore. E un ‘bon ton’ nell’affrontarlo. Sarà che siamo nell’era dell”infotainment’, la cosiddetta ‘informazione-spettacolo’ ma questa – almeno a mio modo di vedere – non è la strada giusta. Non tutto può diventare spettacolo, show. Parole su parole, spesso inutili a far capire i temi reali, che lastricano la via – vista l’eco sui social – di commenti che si fanno, di secondo in secondo, sempre più astiosi, taglienti e impietosi. I tempi cambiano, certo, e oggi ‘la foto del morto’, non la si va più nemmeno a cercare. E’ lo stesso morto che la consegna al pianeta – d’altronde, con grande nonchalance apriamo le nostre vite agli amici e all’universo-mondo, disseminiamo tracce dei nostri spostamenti, di quel che ci piace mangiare, acquistare, rimirare con passione – ma questo non può sovrapporsi al racconto, all’informazione. Che è o dovrebbe essere altra cosa. Invece su quelle immagini, i quotidiani, i media impostano il loro ‘storytelling’ – come s’usa dire di ‘sti tempi – costruiscono la loro narrazione. E così ci si ritrova con l’articolo del ‘giornalone’ che invece di soffermarsi sulla tragedia ci fa sapere – entrando nelle ‘case’ virtuali di ognuno – dei gusti, delle passioni, delle amicizie perse per sempre credendo di scodellare chissà quale pezzo di verità.
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