Media
Fuori Campo, storie di rom lontane da ogni stereotipo
Non capita spesso che i protagonisti di un film siano rom. Ed è ancora più raro che i rom raccontati non corrispondano allo stereotipo delinquenziale che da sempre propagandano media e politici. Questo piccolo prodigio si realizza in “Fuori campo”, il docu-film del giovane regista napoletano Sergio Panariello, presentato in anteprima al cinema Detour di Roma e a breve in circolazione nella sale italiane.
Nei 70 minuti di pellicola non vi è traccia dei famigerati “campi”, che siano le baraccopoli o i villaggi attrezzati in cui – si dice solitamente – vivono i rom di tutta Italia. Ci sono invece quattro storie, molto diverse tra loro, ma tutte rivoluzionariamente “normali”. Sead è un giovane padre di famiglia, partito dal Kosovo da bambino, vissuto a lungo nel campo rom di Scampia e poi emigrato in cerca di fortuna a Rovigo, dove ha messo su casa e lavora come operaio e si impegna da attivista sindacale. Luigi è italiano da generazioni e vive a Cosenza, dove si dà da fare per la propria comunità, ostinato a tirare fuori i suoi compagni dalla ghettizzazione a cui li vogliono costringere le amministrazioni locali. C’è anche la comunità di Firenze, raccolta attorno ai riti sufi. E poi la storia di Canjia, macedone trapiantata a Bolzano, e madre di tre ragazzi (“tutti italiani” sottolinea lei in più di un’occasione) alla ricerca di un’abitazione decente in cui far vivere la propria famiglia.
Storie eccezionali, sembrerebbe, se dovessimo credere all’immagine della comunità rom che ci trasmettono quotidianamente giornali e televisioni, che vede i rom incapaci di abbandonare il campo e restii ad abitare case “normali”. E invece si tratta di storie ordinarie, di quelle che vivono la stragrande maggioranza dei rom italiani. Basta ricordare che “fuori campo”, proprio come i protagonisti del documentario di Panariello, vive l’80 per cento dei circa 200mila rom che si trovano attualmente in Italia.
Il merito di aver raccontato questa realtà va ai tanti autori di questo lavoro, documentaristi, giuristi, antropologi, attivisti rom e non rom, capaci di mettere insieme le proprie professionalità per dare vita dare vita a “un esperimento di co-ricerca”. “Fuori campo” non è altro che “il tentativo di raccontare l’altra realtà dei rom in Italia, quella di cui i giornali non parlano e di cui la politica non si occupa”. Obiettivo centrato, visto che alla fine del documentario è l’immagine stessa dei rom – quella stereotipata e largamente diffusa che conosciamo – a essere rovesciata.
Quello che, ancora, cercano di dirci i protagonisti del film, anche attraverso il semplice esempio delle proprie vite, è che, fuori dalla propaganda mediatica e politica, il “campo” – attrezzato quanto si vuole, magari anche moderno ed ecosostenibile come quelli progettati di recente a Roma o a Napoli – non solo non è la soluzione alla “questione rom”, ma anzi diventa esso stesso il problema, come ogni ghetto che crea esclusione, disagio e anche risposte criminali. Un modello, quindi, da accantonare, funzionale solo a chi (vedi esempio di Tor Sapienza) su questo modo emergenziale di gestire il “problema” da tempo specula, ma che ancora in tanti credono valido.
Inganni, questi, di cui tutti siamo vittime più o meno consapevoli, e che un documentario come “Fuoricampo” contribuisce a svelare.
@carlomariamiele
Devi fare login per commentare
Accedi