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Fashion Blogger: la moda vi ama, il mondo vi odia
Negli ultimi anni ho avuto a che fare spesso con note e notissime fashion blogger. Le ho trovate detestabili oltre ogni limite, impreparate rispetto a qualsiasi cosa che non fossero altre blogger di moda o tendenze istantanee. Ho avuto anche a che fare con manager e aspiranti manager di fashion blogger, con risultati altrettanto disastrosi e deprimenti. La sintesi perfetta è dalla voce di uno di questi, C., 32 anni, palestrato, figura nell’ombra di un nome che adesso comincia a circolare:
“Ogni click sulla pagina vale dei soldi, e le mie ragazze guadagnano in media sui 2mila euro. Poi c’è quella che svolta e arriva a 15mila, le altre finiscono nel dimenticatoio, magari ci guadagnano un paio di scarpe o una borsa. Alla fine però riprendono a studiare perché la maggior parte sono studentesse mantenute dalle famiglie, e il blog è un lavoro: non ci si può improvvisare”.
Come tutti quelli che amano la moda prima in quanto fenomeno sociale e culturale, e poi in virtù della sua momentanea bellezza capace di produrre sorpresa, innamoramento e talvolta riflessione, ho brindato nel leggere la verità sublimata con incredibile grazia nelle parole delle giornaliste di Vogue USA capitanate dalla crudelissima Anna Wintour, che di questa fucilazione collettiva di it girls c’è da credere sia la vera artefice.
Tutto è nato da un articolo collettivo dal simpatico titolo “Ciao, Milano!” nel quale quattro giornaliste di Vogue USA tirano sul sito del giornale le somme della frenetica settimana della moda milanese, e fanno il punto tanto sulle sfilate quanto su chi alle sfilate ha preso parte. Si parla di moda, ma soprattutto di blogger come nota Sally Singer:
“Note to bloggers who change head-to-toe, paid-to-wear outfits every hour: Please stop. Find another business. You are heralding the death of style”.
La sintesi è trionfante: le giornaliste di Vogue USA non ci stanno più (e così, c’è da augurarsi, faranno le loro colleghe di altre note testate) a tollerare che le blogger occupino i primi posti delle sfilate e si limitino sempre più spesso “a farsi fotografare col solo scopo di aggiornare i propri profili social”. L’invito dunque diventa a “cercarsi un altro lavoro” in quanto “stanno proclamando la morte dello stile”. La stilettata, poi: “cercare stile tra chi viene pagato per essere in prima fila è come andare in uno strip club per innamorarsi”.
Tutta la questione è partita circa dieci anni fa, quando delle adolescenti (o quasi) hanno cominciato a postare su piattaforme di microblogging o su blog personali fotografie che le ritraevano abbigliate con look incredibilmente assurdi o costosi. Lentamente si sono trasformate in persone note, hanno conquistato attenzioni da parte delle case di moda e dei media (gli stessi che adesso le contestano), nei casi più fortunati sono riuscite a diventare influencer se non addirittura guru in nome di uno stuolo di fan adoranti (spesso del tutto privi del più basilare concetto di moda, ma decisamente attenti a quello di instant style).
Con dedizione, intelligenza e determinazione le fashion blogger sono diventate la sintesi del nostro tempo privo di preparazione e competenza, e hanno rosicchiato terreno alle giornaliste professioniste e alle loro testate, si sono imposte con i loro gusti (e con quelli suggeriti, nonché con i doni ricevuti) arrivando a monetizzare ciò che mai si sarebbe creduto possibile. Adesso che la guerra è aperta, c’è da augurarsi che questa dittatura del nulla – fatta di pose, sorrisini, collezioni disegnate senza la minima competenza e preparazione – si esaurisca definitivamente. Smettere di andare sui blogger delle it girls è un primo passo.
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