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Facebook: una malattia

21 Settembre 2018

Facebook è una malattia.
Attraverso i social vogliamo apparire, semplificare.

Mentre un tempo per raggiungere un risultato era necessario un percorso di maturazione, sacrificarsi, studiare intensamente, pagare il costo della macerazione, oggi si tenta la carta Facebook: un modesto traguardo lo si ingigantisce, lo si sovradimensiona.

Si entra nella falsa e becera considerazione che la visibilità sia più redditizia della validità di un sforzo, di un progetto.

Non si mette in conto che è la sostanza che conferisce robustezza alle cose, non il vuoto apparire.

E la sostanza o c’è o non c’è: prima o poi il bluff verrà scoperto.
Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino”, diceva Italo Calvino.
Una modesta vittoria o un parco successo professionale è annunciato sui social come il conseguimento di un premio Nobel.
Targhe, targhette, pergamene, attestati sono cantati al mondo che deve sapere dei trionfi conseguiti.
La mania pervicace di esibirsi, a qualunque costo, cade nella futilità: si postano abiti, cibarie, cani, bambini.
Si vedono anche ferite sanguinanti ed orride, balletti inverecondi e piagnistei lamentosi ed insopportabili.
Si sono individuate foto di persone che dormono o appaiono allo specchio della toilette di un ristorante.
Si richiamano aforismi o frasi celebri snocciolate da internet e postate senza alcuna ricaduta contestuale: flatus vocis. Inutili ed insignificanti.
La ricerca spasmodica del like, o di altri follower è la misura della considerazione sociale acquisita: ed infatti sorgono mercati collaterali di esperti professionisti, cui affidarsi per la promozione dell’immagine.
L’esibizione virtuale diventa forsennata e nel corso della giornata si comunica ai follower che cosa si sta preparando per pranzo, come si sia dispiegata la giornata lavorativa, quale sia la condizione sentimentale della relazione con il proprio partner, si indica con freccette il luogo ove si è diretti, il viaggio intrapreso: e tutto il gregge a schiacciare il like.
Veri e propri book fotografici vengono promossi sui social, anche pubblicando foto non veritiere e palesemente ritoccate, in modo che alcun difetto fisico possa emergere ed essere di facile e repentina rilevazione.

Ti accorgi che il virtuale rende una persona completamente diversa da quella che effettivamente sia realmente, con le sue rughe, i suoi acciacchi o le chiare imperfezioni fisiche e cadute che il tempo inesorabilmente comporta con la sua irriducibile corrosione.
Ma una foto non rimuove la cellulite: e lì implacabile, non si può tagliare. Se il naso è storto è storto e basta.
È stato stimato da una recente indagine ( vedi Corriere della sera del 17 settembre) che l’uso dei social comporti un tempo che porta via oltre un terzo della giornata e l’applicarsi ai telefonini o iPad è incondizionatamente diffuso in tutti gli strati sociali, dalle casalinghe ai professionisti, agli operai, agli impiegati.
Nell’ostentazione siamo miseramente tutti uguali, come se fosse stata creata una grammatica, un cliché da seguire supinamente.
Ai ristoranti ed alle nostre tavole prima si raccontava e narravano aneddoti e barzellette ed il dialogo allontanava la notte e la solitudine: oggi si è incollati al telefonino, ma si è ancora più soli. 
Lo stare al mondo si misura nella capacità di resistere nella rete, per essere connessi.
Non si chiede neppure, paradossalmente il numero telefonico, ma l’indirizzo della pagina Facebook o quello del nome di fantasia di Instagram.
È stato altrettanto verificato che la comunicazione parlata sia stata palesemente surrogata dalle chat di Facebook, sulle quali vengono conferite le più insulse ed insignificanti notizie, anche riguardanti le abluzioni mattutine o le coliche intestinali sopraggiunte.
Nella stessa stanza non si parla, ma si preferisce “chattare”.
La selfiemania abbonda e vengono riportate e postate foto raffiguranti tutte le posizioni del corpo, a foggia di numeri acrobatici di circensi non assoldati ed in cerca di scritturazione.
Ed il linguaggio è la cartina di tornasole di un livello culturale infimo: segni e pupazzetti sostituiscono velocemente un pensiero scritto, tra l’altro senza alcun osservanza di tempi e modi verbali adeguati e con l’appannaggio di poche parole, sempre uguali, come se il nostro lessico soffrisse la sinonimia, ovviamente sconosciuta.
I “pazienti” di Facebook non conoscono il valore delle parole ed il suono sotteso: non sanno che esse incontrano la metamorfosi in eternità del Tempo. Lo diceva il compianto Guido Ceronetti.
In un recente libro un grande psichiatra, Vittorino Andreoli, sostiene che stiamo nella fase della stupidità    (Homo stupidus, stupidus) perchè governa l’irrazionalità, domina l’assurdo, non c’è il senso dell’etica. Peggio di così…

E come conseguenza della stupidità abbiamo la regressione all’homo pulsionale. Davanti ad una tastiera ci scateniamo ed esaltiamo e postiamo le peggiori nefandezze, incuranti della diffamazione altrui.
Abbi più di quanto mostri, parla meno di quanto sai, diceva Shakespeare.
Ma oggi sarebbe stato accusato di misantropia, non ascoltato per la sua saggezza.
Utilizziamo Facebook per cose serie: diffondere pensieri, cultura, notizie, musica raffinata, effettivi e non gonfiati successi professionali, eventi decisivi della vita. Anche belle foto.
Per giocare, con garbo ed ironia.
Altrimenti ci sconnettiamo dalla realtà della vita, quella vera.

E saremo sempre più soli: cadendo nel buio della disperazione.

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