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Fabio Volo sul 9 e Berlusconi su Netflix: due occasioni sprecate
Per la maggior parte dell’Italia che ha piu’ di 50 anni i canali TV sono ancora 6, 7 se si e’ fan della parlata secca e scattante di Mentana.
Per tutti gli altri il futuro e’ gia’ iniziato da un pezzo, i canali sono un centinaio e la TV la si guarda sul computer: ma i meccanismi truffaldini dell’Auditel fanno si che il grosso dell’investimento pubblicitario sia ancora concentrato in larga parte su reti i cui palinsesti hanno stancato anche le nonne.
Per scardinare questo sistema basato sulla legge-Gasparri, una di quelle leggi-pernacchia alla Rivoluzione Liberale che sarebbe dovuta essere la ragione sociale del Berlusconismo, abbiamo assistito recentemente a due tentativi giustamente ambiziosi.
Fabio Volo su Canale 9, ovvero Discovery Channel, ha provato a portare in Italia un format reso popolare negli Stati Uniti da comici come Louis C.K., Marc Maron e recentemente Aziz Ansari: tecnicamente si chiamano multi-camera comedy sit-com, dove l’aggettivo “multi-camera” serve a differenziarlo dalle sit-com classiche come The Big Bang Theory dove la camera e’ fissa e le location limitate.
Il sottogenere piu’ ambizioso dei multi-camera, cui appartengono i casi citati, e’ quello a cui nelle intenzioni doveva appartenere lo show di Volo, ovvero i fictionalized, dove il protagonista e’ un comico che interpreta una versione di se stesso simile (ma non identica) alla sua personalita’ reale.
Si trattava di una grande occasione, sulla carta, perche’ avrebbe permesso per la prima volta in Italia – dove il genio di Louie o di Curb Your Enthusiasm e’ pressoche’ sconosciuto – di rinfrescare e modernizzare il racconto comico televisivo, fermo a Zelig o forse addirittura a Drive in e sdoganare una forma di espressione nuova che avrebbe fatto da apri-pista a programmi in linea con quello che va in onda nel resto del mondo.
Peccato che, per una serie di motivi, Untraditional sia stato realizzato in modo disastroso, e paradossalmente nemmeno per colpa del suo autore.
La scrittura e’assolutamente inconsistente: e questo perche’ scrivere per la TV e’ molto diverso che scrivere un libro. Come dice Al Pacino in Any Given Sunday “non e’ la stessa partita, non e’ lo stesso campo da gioco e non e’ neppure lo stesso fottutissimo sport”.
La scrittura televisiva di nuova generazione, che ha portato al rinnovato successo della serialita’ americana nel mondo, e’ una tecnica che negli Stati Uniti si studia all’Universita’ in corsi pluriennali e poi si affina con la pratica: il planting/payoff, il foreshadowing, la four-act structure eccetera fanno parte della cassetta degli attrezzi di ogni sceneggiatore come le chiavi inglesi fanno parte di quella del meccanico. Non ci sono regole ferree da seguire alla lettera ma formule da riempire con la propria creativita’, che si sono evolute nel tempo, dopo anni e anni di esperimenti narrativi.
Volo, che fa un altro lavoro, si e’ buttato nella scrittura della sua serie con entusiasmo e infatti – in ogni puntata – in filigrana si vedono idee potenzialmente interessanti. Peccato che chi doveva occuparsi di dare struttura a queste idee si sia rivelato completamente incapace di farlo.
Quando Volo scrive un romanzo, infatti, e’ assistito da uno o piu’ editor – che hanno padronanza totale del mezzo e conoscenza assoluta del target. In TV questo non accade: Volo, o chi per lui, e’ lasciato completamente solo,perche’ chi si occupa di fare TV in Italia non ha (in larghissima maggioranza) alcuna conoscenza del tipo di scrittura richiesto per la serialita’ televisiva.
Invece che rapportarsi al mezzo con umilta’, molti produttori italiani – che spesso conoscono solo per nome le serie americane di cui tutti parlano, senza averne mai visto piu’ che un paio di puntate di sfuggita – pensano si possa fare a meno della tecnica: e il risultato e’ quello che si e’ visto con Fabio Volo, dove il racconto e’ incoerente, i personaggi stereotipati, il ritmo completamente assente. Non perche’ Volo scriva male, ma semplicemente perche’ Marc Maron o Aziz Ansari hanno uno staff di produttori/scrittori (non a caso, negli USA per quanto riguarda la TV i producers sono gli stessi writers) che seguono lo sviluppo della sceneggiatura passo per passo, con cognizione di causa, proprio come gli editor lo seguono nello sviluppo del romanzo.
Una serie TV, se va bene, e’ composta da almeno 600 pagine (ma raggiunge facilmente qualche migliaio) da scrivere in un arco di tempo limitato e definito a priori: non c’e’ bisogno di leggere Sul genio di Schopenhauer per capire che si tratta di uno sforzo impossibile per una persona sola. Eppure questo e’ quello che si crede in Italia, a meno che non ci si affidi alla famosa “regola dei due spaghi”, quella per cui, se ho un lavoro da commissionare (qualunque sia il settore produttivo), io non mi affido al piu’ competente, ne’ faccio una vera ricerca sul mercato, ma semplicemente lo affido al tale con cui, l’ultima volta che mi sono fatto due spaghi, mi sono divertito moltissimo a parlare di calcio e belle donne.
E quando ci si rende conto che il prodotto non e’ all’altezza, si corre ai ripari con toppe assai peggiori del buco.
Per esempio si riempiono le puntate di camei e apparizioni di personaggi noti, i quali non sono assolutamente funzionali al racconto e rappresentano solo uno spudorato tentativo di fare un trapianto di pubblico per attirarne i followers. Peccato che gli spettatori, molto piu’ intelligenti di quanto credano i produttori, non siano stupidi: la Lucarelli interessa quando fustiga con ingegno i vizi della societa’ italiana sul Fatto, nel momento in cui si trova a recitare un “personaggio” che strabocca dei peggiori luoghi comuni italiani sulle donne, ecco che non interessa piu’ a nessuno.
Oppure si rende il programma una marchetta continua, trasformando Volo nel Nino Manfredi degli anni ’70 quando in ogni scena aveva in mano un pacchetto di sigarette o un bottiglia di Amaro. Si dira’ “eh, ma le limitazioni del budget”, ma allora si dovrebbe ridurre il minutaggio della singola puntata. E’ proprio per contenere il budget che i fictionalized durano negli Stati Uniti 21 minuti a episodio: questo perche’ la comicita’, per sua natura, e’ estremamente legata al Paese in cui nasce, e tende a essere meno esportabile dei drama, col risultato che le case di produzione, sulla comicita’, non guadagnano dalle vendita sul mercato estero, che al contrario sono il grosso dei profitti sui drama. Invece il singolo episodio del programma di Volo dura molto di piu’, col risultato che non solo il genere e’ stravolto, ma anche che si e’ dovuto allestire un suk per coprirne i costi.
Poi c’e’ da considerare il casting, che in America viene fatto con dettaglio maniacale, in un processo che dura settimane, mentre in Italia occupa spesso un paio di pomeriggi svogliati col risultato che i ruoli minori sono recitati da cani; moltissime scene lunghe, che iniziano troppo presto e finiscono troppo tardi, che probabilmente sono state scritte la sera prima senza che un vero processo di riscrittura e revisione sia stato messo in atto; e il fatto che, in generale, gli spettatori abbiano sviluppato un gusto assai piu’ evoluto degli stessi produttori, che pur facendo la TV si guardano bene dal vederla, col risultato che cose completamente metabolizzate dal pubblico appaiono loro barzellette destinate al fallimento.
Provate a pensare a BoJack Horseman, la serie comica animata di Netflix sul cavallo parlante dalle sembianze umane: in America e’ oggetto di culto, in Italia si sta diffondendo nello zeitgeist a velocita’ impressionante. Eppure, a proporla a un produttore italiano, si verrebbe sbattuti fuori dall’ufficio a pedate.
Ma questi sono problemi su cui Fabio Volo non poteva fare nulla. Qui c’e’, semplicemente, la voglia di fare qualcosa di cui si parla molto – ovvero la serialita’ americana – senza mettere a disposizione i mezzi produttivi adeguati. E il risultato e’ una figuraccia, il cui conto – pero’ – lo paga il solo Volo.
Su Netflix, invece, questa settimana gli utenti italiani hanno trovato My Way, il documentario sulla vita di Berlusconi raccontata da Silvio medesimo ad Alan Friedman, prodotto dalla societa’ dello stesso Friedman e successivamente acquistato per meta’ dalla societa’ dei figli di Sergio Leone.
Anche qui all’insaputa dei produttori italiani, per i quali il genere ricorda i bolsi cineforum della loro gioventu’, negli USA il documentario sta conoscendo un vero e proprio boom. L’idea e’ che nella societa’ dei social media e del fact-checking, la possibilita’ di acquisire informazioni specifiche su un certo argomento in modo da diventare – o meglio, in modo da avere l’impressione di diventare – competenti genera nel pubblico un fascinazione particolare, come una sorta di status che si acquisisce tramite la visione e che poi si spende sui social in post e commenti (letteralmente, far la figura dell’intellettuale).
E’ il motivo per cui nei festival di Toronto, Telluride o al Sundance il documentario e’ il territorio privilegiato in cui si svolge la battaglia tra Amazon e Netflix, quello su cui gli investimenti stanno, in proporzione, crescendo piu’ rapidamente.
Ma il documentario, per essere interessante, deve esprimere un punto di vista sulla materia narrata in modo da scatenare passione, dibattito e possibilmente controversie. Non basta illustrare la storia di Amanda Knox, bisogna che il pubblico si faccia un’idea del perche’ la Knox sia stata incarcerata e poi assolta (ovvero che l’Italia e’ un posto di misogeni terrorizzati da Dio e dalle donne, secondo il documentario di Netflix perfetto nella realizzazione ma assai discutibile nel contenuto). Non basta mostrare le condizione disperate delle carceri americane, bisogna che il pubblico capisca che tali condizioni sono funzionali all’ideologia capitalista che utilizza i galeotti come manodopera gratuita (e’ la tesi di 13th, il documentario, sempre di Netflix, che pare destinato a vincere l’Oscar).
Peccato che tutto questo in My Way non ci sia. Berlusconi dice di aver ottenuto i soldi grazie alla liquidazione del padre, Ingroia risponde che quei soldi arrivano da Stefano Bontade, ex boss di Cosa Nostra. E il documentario invece di indagare il punto – di una certa importanza – fila via, senza nemmeno provare a fare chiarezza, come se il mero porre la domanda fosse abbastanza.
Cosi’ il tutto si riduce a una lunghissima e piatta intervista, dove i grandi nodi del berlusconismo che hanno influenzato la societa’ determinandone l’assetto politico attuale scorrono via come una bibita fresca d’estate, in un riassunto per immagini del libro uscito un anno fa, al punto che la stessa parola “documentario” appare fuori luogo, e andrebbe appunto sostituita dalla parola “intervista”.
Berlusconi non era disponibile al contraddittorio? E allora cosa lo si e’ fatto a fare, il documentario?
L’unico motivo di interesse del prodotto, allora, e’ proprio Berlusconi stesso raffigurato nel privato, attraverso attimi di vita o spezzoni di dialogo carpiti dalla camera. Straordinario il momento in cui umilia l’ex allenatore del Milan Inzaghi davanti alla squadra al completo o quando chiede a Muntari di presentargli la moglie, con tanto di buffetto sul petto a mo’ di occhiolino. Peccato appunto che il tutto si riduca a momenti rubati, e che non sia quello il cuore e l’obiettivo del racconto.
Come in Untraditional, anche qui certi vizietti italiani inquinano un prodotto che sarebbe potuto essere vincente: il rifiuto di esprimere un punto di vista per paura di indispettire l’altra fazione, il ritmo didascalico che vuole raccontare tutto e finisce per non raccontare niente (come si fa a parlare della vita di Berlusconi senza intervistare Arrigo Sacchi o Gianfranco Fini?), la piacioneria del conduttore che invece di farsi da parte e lasciar parlare le immagini deve spintonare di continuo per prendersi la scena. Mentre in 13th o in Amanda Knox il conduttore e’ assente, in My Way il racconto e’ continuamente ostacolato dal faccione di Friedman che ride, strabuzza gli occhi, fa le faccette buffe nel tentativo di ergersi a “personaggio”.
Insomma, due tentativi ambiziosi purtroppo falliti, e non solo per il prestigio o le finanze di chi li ha prodotti o interpretati. Si, perche’ il grado di civilta’ e di evoluzione di un Paese si esprime, soprattutto, attraverso le storie che racconta: non e’ un caso che la prima potenza economica mondiale sia leader nel settore dello story-telling e che la Cina, nel tentativo di scalzare gli USA, stia finanziando a un’ora di volo da Pechino la nuova sede della Wanda Film che sara’ grossa, nel 2020, il doppio degli Universal Studios californiani.
In America e’ grazie a Curb Your Enthusiasm di Larry David se si e’ iniziato a mettere in dubbio gli eccessi del politicamente corretto o a Girls di Lena Dunham se si e’ iniziato a parlare di neofemminismo o a Madmen di Matthew Weiner se si e’ capito su quali fragili fondamenta poggiasse l’intero mito dell’American Dream o a 13th se la questione dei detenuti e’ balzata in cima al dibattito pubblico a stelle e strisce. Noi invece siamo ufficialmente fermi alle vite dei preti e a gente che oggi ha scoperto dopo 10 anni dell’esistenza di Boris.
Cosi’ i grandi temi e le grandi contraddizioni irrisolte del nostro Tempo, invece che essere discussi e rielaborati secondo la nostra sensibilita’ attraverso storie autoctone di massa, si diffondo nel Paese esclusivamente dalla porta di servizio, ad uso e consumo di una minoranza, declinati da una cultura – quella americana – diversa dalla nostra.
E cosi’ si perpetua il conformismo asfissiante che impesta l’aria del nostro Paese.
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