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Dove sta andando il giornalismo, intervista a Peter Gomez

19 Aprile 2015
Era uno dei migliori giornalista d’inchiesta, ora nel suo ufficio non c’è nemmeno un quotidiano. Il futuro della carta, le altre fonti di reddito, per i siti, oltre alla pubblicità, l’obiettivo dei due milioni di utenti unici nel giro di un paio di anni, senza donnine né gattini. Intervista al direttore de IlFattoQuotidiano.it. Foto: Banhoff
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Peter Gomez cammina e parla al cellulare. I fili degli auricolari pendono da una parte all’altra mentre gesticola. La redazione de IlFattoQuotidiano.it è al quarto piano di un palazzone in zona Melchiorre Gioia, Milano. Le stanze sono spaziose, le pareti tutte bianche e ricoperte di ritagli, foto, prime pagine di Libero e Giornale (storica quella della culona sulla Merkel). Intorno a lui, alle sette di sera di un mercoledì, ci sono 11 ragazzi e una ragazza, e Gomez si muove da una postazione all’altra, poi si ferma, guarda in alto, abbassa la testa, avverte: «due minuti e arrivo», poi riparte. Davanti a me c’è un muro di faldoni, il suo archivio. Su ogni faldone i nomi di persone e casi (Mangano, All Iberian, Di Pietro, Craxi) che hanno segnato la storia italiana e anche quella di Gomez, uno tra i migliori giornalisti investigativi in circolazione prima di diventare direttore di questo sito. È stato: un pupillo di Indro Montanelli a Il Giornale e La Voce, inviato de L’espresso, collaboratore di MicroMega e fondatore de Il Fatto Quotidiano nel 2009. Si è occupato di corruzione politica, cronaca giudiziaria e mafia, temi sui quali ha scritto libri su libri, spesso in coppia con Marco Travaglio. I più recenti e famosi: Mani pulite, Mani sporche e Papi, tutti editi da Chiarelettere. Quando finisce di parlare al telefono ci fa entrare nel suo ufficio e sprofonda nella sedia. Qualcosa non torna. A metà intervista capirò cosa: è la prima volta che entro nella stanza di un direttore e non vedo un quotidiano che sia uno. Nemmeno uno dimenticato lì per sbaglio.
Allora, è vero: la stampa cartacea è morta. «No, però deve cambiare. Immagino che resteranno pochi giornali nazionali con molte meno pagine. E quelli che resteranno saranno quelli che avranno imparato a occuparsi molto poco di quello che la gente ha già letto online o già visto in tv e molto di più degli approfondimenti e delle opinioni. Perché siamo di fronte a un cambiamento sociologico, basta prendere la metropolitana e vedere quante persone hanno un quotidiano in mano…». Li conto ogni mattina e li twitto. In metro a Milano quei pochi che leggono un quotidiano hanno in mano un freepress. Unica eccezione: il giorno dopo la strage di Charlie Hebdo. «Certo, perché la gente compra un quotidiano per conoscere un punto di vista a cui altrimenti non avrebbe accesso. Poi bisognerebbe capire come mai non restano attaccati. Ma non è una questione legata solo alla crisi, al costo dei giornali o alla loro scarsa creatività: è legata ai tablet, ai telefonini, all’utilizzo che facciamo dei computer. I giornali devono essere ripensati, ma non penso che moriranno mai del tutto finché non ci sarà un’innovazione tecnologica che riuscirà a sostituire la carta. Un tablet e un telefonino sono comodi, però non danno lo stesso piacere di lettura. E poi i quotidiani in Italia restano in piedi anche per interessi politici». Però Renzi sembra fregarsene dei quotidiani, non ha fatto granché né per salvare L’Unità né Europa, come se non ne avesse bisogno dei giornali. Una rivoluzione? «Sa benissimo che il consenso si forma sempre di più in tv e sulla rete: un’inversione del peso politico di questi due media avverrà nel 2018, se va bene. Però bisogna considerare che in Italia i grossi siti d’informazione sono il Corriere e Repubblica, che possono piacere o meno, ma che non sono altro che un’appendice del quotidiano. In ogni caso sono contrario al finanziamento pubblico alla stampa». Ma perché non capiscono che online e carta sono e devono essere due cose differenti? «Magari lo hanno capito ma di fatto usano strategie che cannibalizzano la carta. Repubblica, per esempio, sceglie di mettere il fondo domenicale di Scalfari alle 7 del mattino, il Corriere invece pubblica sempre i pezzi di tutti i suoi opinionisti, ma se queste cose le leggo online, che interesse ho a comprare il giornale? Noi Travaglio lo usiamo una volta alla settimana, se no chi vuole leggerlo paga e compra il quotidiano. Ma va considerato che in un mondo normale RCS sarebbe fallita e chiusa». Invece… «Invece ci sono degli interessi di politica economica che tengono in piedi i quotidiani. Il motivo per cui l’imprenditore Angelucci a un certo punto acquistò sia Il Riformista sia Libero era che, occupandosi di cliniche, aveva bisogno di un giornale di sinistra e di uno di destra per avere buoni rapporti con le Regioni… Quindi anche se Libero perde 5 milioni di euro, rientri da altre parti».
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eccolo qua un pezzo del suo archivio
Il Fatto Quotidiano.it come sta andando? «Molto bene. Ieri Audiweb ci dava 948.550 utenti unici, tre milioni e 470mila pagine viste, con un tempo medio di permanenza di tre minuti e 47 secondi per pagina, con picchi di durata di permanenza nel sito di 14 minuti. Se non calcoliamo i siti partner noi dovremmo essere il terzo sito italiano di news dietro di molto al Corriere e a Repubblica, ma davanti a Messaggero e Stampa». Chiariamo cosa sono i siti partner. «Da sempre Audiweb permette di calcolare come proprio traffico anche quello che deriva da siti collegati al tuo ma che col tuo non hanno niente a che fare. Facciamo un esempio: La Stampa come sito partner aveva Medici Italia, Repubblica ha Tom’s Hardware, roba da 250-300mila utenti unici al giorno: questi dati non hanno fatto altro che drogare le classifiche e confondere gli investitori. Tutto regolare, per carità, ma la sostanza non cambia. Il Messaggero per esempio ne ha qualche decina, di siti partner. Ma da gennaio dovrebbe essere partita la prima rilevazione Audiweb depurata e tra qualche mese dovrebbero arrivare i dati. Saranno importanti per la pubblicità». Modelli di business utili per i siti d’informazione: paywall, pubblicità, altro?… «Per noi il paywall non penso possa funzionare, perché non abbiamo abbastanza contenuti né storia alle spalle, invece Repubblica e Corriere potrebbero farlo, soprattutto sui contenuti del cartaceo, anche se loro hanno già talmente ricavi pubblicitari che non hanno interesse a sperimentare altre forme. Repubblica.it incassa 50 e passa milioni di euro, Corriere.it quasi lo stesso. Noi invece che siamo costretti a inseguire la pubblicità stiamo pensando anche ad altre fonte di reddito». Quali? «Innanzitutto migliorando e stringendo il rapporto con i nostri lettori, magari con una sorta di abbonamento al sito su base volontaria e poi con una coda lunga di ricavi che passerà attraverso l’e-commerce. Io penso che se il sito del Fatto esistesse da 12 anni invece che da 4, come quello della Stampa o del Messaggero, probabilmente avrebbe una raccolta pubblicitaria non di 3 milioni di euro ma sugli 8. Sul web funziona così: se quest’anno ho 100 investitori e sono stato bravo l’anno dopo li tengo tutti e in più se ne aggiungono altri, quindi esserci da tanto tempo è importante». Un anno fa dicevi che un terzo del tuo stipendio lo pagava la carta. Adesso?
 «Un po’ meno, però nemmeno quest’anno raggiungeremo il break even perché abbiamo previsto 4 milioni di investimento». In…
 «Nuove sezioni per andare a prendere un pubblico maggiore e diverso rispetto a quello che di solito ci segue. Siamo partiti con FQ Magazine, un settimanale più leggero perché non si vive solo di giornalismo di hard news. Poi stiamo cercando di incentivare il rapporto coi lettori, lavorando su una parte fatta con contenuti segnalati o prodotti dai lettori stessi». La nuova tendenza sembra essere il data journalism…
 «Nel nostro piccolo lo facciamo, è molto bello ma non ti porta traffico». 
Ti manca il giornalismo investigativo? 
«Adesso no, ma so che probabilmente, tra un anno e mezzo o due, mi tornerà la voglia di scrivere. Per il momento ho l’ambizione di dimostrare che questo sito possa giocare lo stesso campionato di Corriere e Repubblica. Certo, noi non raggiungeremo mai i tre milioni di utenti unici al giorno, ma a 1,5 milioni quasi due ci possiamo arrivare nel giro di un paio di anni, facendo un giornalismo di qualità, senza donnine o gattini». Una volta era luogo comune pensare che su internet gli articoli dovevano essere brevi, oggi una delle tendenze è il longform e voi, tra i quotidiani online, siete quelli che fate gli articoli più lunghi… «La parte scritta deve essere lunga quanto serve, punto. Sulla carta come sull’online. La regola, in un pezzo di cronaca, sarebbe una riga una notizia».
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Un A4 in redazione. È bene ricordarsi di non prendersi mai sul serio
Qual è la tua rassegna stampa?
 «A mezzanotte guardo Il Messaggero, che a quell’ora è già online. Poi mi sveglio alle 7,45 e fino alle 9,30, sul tablet leggo Il Fatto, il Corriere, la Repubblica, Stampa, Sole24 Ore, il Giornale, Libero e il New York Times. Mentre leggo faccio gli screenshot delle cose che mi sembrano interessanti e le mando in redazione, così chi arriva le trova». Siti?
 «Un po’ di tutto, soprattutto Internazionale, Politico, Gli Stati Generali». Escluso il Fatto, qual è il miglior quotidiano in Italia? «Il Corriere della Sera. Ma diciamo che è il meno peggio, perché nonostante tutti i suoi limiti è il giornale dove trovi il maggior numero di informazioni e storie. Molto buono è anche Il Secolo XIX». Chi potrebbe essere il direttore ideale del Corriere? «Non posso farti un nome, ma un identikit. Deve avere 42, 43 anni, una forte esperienza digitale e la consapevolezza di guidare Il Corriere della Sera, un giornale che non può permettersi di genuflettersi ai potenti». Oggi più dei giornali contano i giornalisti. Cosa ne pensi? «È scontato: se i giornali non riescono ad apparire affidabili, è ovvio che il pubblico si affidi a delle persone che invece sono ritenute credibili. Noi abbiamo fatto lo sforzo di spersonalizzare il sito, di far sì che la garanzia sia il sito stesso per chi ci legge, indipendentemente dalle firme». Quali sono i giornalisti da seguire? «Marco Lillo del Fatto, il più bravo di tutti. Domenico Quirico de La Stampa, Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo del Corriere, Franco Bechis di Libero. Ma ce ne sono tanti, come Paolo Biondani sempre del Corriere, Fabrizio Gatti de L’espresso, Ruotolo de La Stampa. Ci sono due problemi però: nessuno di questi è giovane e ognuno di loro, tranne Lillo, deve fare i conti con una linea editoriale gradita alla proprietà». C’è chi sostiene che il giornalista verrà pagato sempre meno e vivrà con gli eventi, i dibattiti, i workshop… «Può essere. Non credo che nei giornali del futuro ci potranno essere dei buoni stipendi e sarà difficile pensare alla grande firma che guadagna 400, 500 mila euro l’anno. Ma se uno è onesto con se stesso e ha deciso di fare il giornalista, sicuramente non lo ha fatto perché pensava di diventare ricco».

Peter Gomez
Quanto guadagni? 
«Intorno ai 150, 160mila euro lordi all’anno, tenendo conto che mi entra parecchio dai diritti per i libri. Ma da tre anni non ho tempo di scriverne nuovi: prima guadagnavo di più infatti». E i giornalisti che sono di là? 
«Quelli che hai visto sono assunti con regolare contratto giornalistico e tra straordinari e due domeniche al mese quelli con più di 30 mesi di anzianità possono arrivare fra i 2.500 e i 3mila euro». Voi producete anche molti video… «Paghiamo i free lance tra i 70 e i 130 euro a video, pochissimo. Io vorrei dargli più soldi ma non li ho». Il budget mensile che avete per fare il sito?
 «Intorno ai 25mila euro». Sempre più lettori arrivano dai social, come pensate di trattenerli sul sito? 
«Abbiamo fatto una piccola riforma grafica: in ogni pagina mettiamo l’home page sulla destra cercando di convincere chi arriva dai social a restare dentro il nostro sito. Ma è sbagliato affezionarsi troppo all’home page. E poi stiamo cercando di migliorare i nostri correlati…». Fermati: ma quando usi questi termini, quanti dei tuoi colleghi ti capiscono? «Quelli della carta? Nessuno». E a te chi te l’ha fatto fare di lasciare il giornalismo di inchiesta e di buttarti sull’online? «Perché ho pensato che per uno come me, arrivato a 50 anni dopo aver scritto articoli e fatto scoop su qualsiasi argomento, fosse interessante confrontarsi con un ambiente e una squadra di persone più giovani. Per me è stato un investimento professionale. E poi ho sempre pensato che uno dei doveri del giornalista fosse quello di raggiungere il maggior numero di lettori possibile. Ed è indubbio che in questo modo possa farlo». Come ti aggiorni? «Parlo con i miei sviluppatori e collaboratori, sono loro che mi spiegano e se non capisco continuo a chiedere: spiegatemi. L’approccio è lo stesso del giornalismo investigativo: se ti devi occupare di una cosa e non ne sai niente, studi, leggi, chiedi, ti informi e vai avanti». Se La Stampa o un altro big ti chiamasse per dirigere la parte digitale, tu ci andresti? «Al Fatto la cosa impagabile è la libertà, però è ovvio che quando il sito avrà raggiunto i risultati a cui mi sono prefissato di arrivare, chi cavolo ne sa cosa potrebbe succedere, mai dire mai nella vita».
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