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Dentro Charlie Hebdo, due anni dopo (e adesso sono 5)

17 Gennaio 2017

(questo articolo e’ la versione in long form, in italiano, di quello uscito sul quotidiano francese Liberation lo scorso 5 gennaio). 

In una mattina d’inverno, in una strada qualunque di Parigi sono davanti a una porta. Suono al citofono e dico la parola d’ordine che mi è stata comunicata giorni prima, sperando di pronunciarla nel modo giusto.

Per fortuna la serratura scatta. Entro e la porta si richiude subito alle mie spalle. Ora sono in un vano intermedio, davanti ho un cancello.

La voce metallica dell’altoparlante dice di venire avanti.

Dal cancello sbucano tre uomini la cui gentilezza è proporzionale all’enorme stazza. Mi salutano sorridendomi e chiamandomi per nome: evidentemente hanno letto anche loro la mail con tutti i miei dati anagrafici che ho inviato la settimana prima.  Mi sottopongono a un controllo che sarebbe di routine in un aeroporto. Poi proseguo dritto, seguendo la direzione verso cui punta la pistola di uno dei tre uomini, non troppo ben nascosta nella tasca interna.

Altre porte blindate, alcune scale, mitra e pistole, una marea di dettagli che non posso rivelare. Alla fine mi ritrovo in un altro vano intermedio, solo molto più claustrofobico. Tra due porte blindate, nel silenzio, i secondi passano lenti.

SLANG!

Davanti a me appare una donna senza tempo coi capelli neri, francese dalla testa a piedi, che subito immagino sulle barricate insieme a Robespierre a tirare sassi sull’Ancien Régime.

<<Bienvenue à Charlie Hebdo>>.

Lei è Marika Bret, responsabile delle Risorse Umane per il giornale che due anni fa è divenuto suo malgrado famoso in tutto il mondo. E quella che ho davanti è la redazione, non più quella redazione ma una nuova, ovvero il segreto meglio custodito di Parigi. Dovessi rivelarne a qualcuno l’esatta locazione sarei immediatamente denunciato dalla casa editrice. Marika mi fa strada tra i corridoi, dove alle pareti sono appese le migliori copertine nella storia recente del giornale, dalla riapertura dopo gli attentati in poi. Le altre, quelle storiche, non ci sono. <<Troppo dolorose da guardare>> mi dice Marika.

Entriamo nella sala più grande, quella dei disegnatori, e avverto subito la sensazione che sarà la costante di tutta la giornata: la sorpresa nel vedermi.

<<Ma mère>> dice lei. << Mia madre>>. La gente mi sorride. Capiscono che sono l’italiano dell’articolo su internet che spiegava la vignetta sul terremoto a sua madre.

E’ lunedì, mancano due giorni all’uscita nelle edicole e fervono i lavori sulla copertina. Mi presentano Coco, la donna che fu costretta a far entrare i terroristi in redazione. Disegnano la Merkel che limona duro, un Donald Trump con la vagina. Tutto si riduce a questo, dunque. E’ questo, solo questo e nient’altro, il gesto che nell’Occidente odierno ha bisogno di un dispiegamento di forza militare senza precedenti per essere garantito.

Seguo Marika nel suo ufficio. A Charlie dal 1992 – salvo una breve parentesi – e’ il volto pubblico del magazine satirico francese, una delle poche persone intitolate a parlare con la Stampa. Sulla scrivania ha una foto che la ritrae insieme all’ex direttore Charb ucciso il giorno dell’attacco. Ridono, da giovani, forse ancora ignari della reale portata del loro lavoro.

Come è cambiata la tua vita dopo l’attacco?

<<Ho dovuto abituarmi a un tipo di vita completamente diverso dove niente può accadere in modo spontaneo. Tutto deve essere preparato e pianificato in anticipo. Se adesso – per dire – volessi correre a comprarmi una baguette, non potrei (a buona parte dei collaboratori di Charlie è assegnata una scorta)>>

Houellebecq sostiene che l’uomo occidentale, della libertà, non sa che farsene. Sei d’accordo?

<<E’ difficile rendersi conto di cosa sia davvero la libertà, perché la libertà non la si vede fino a che non la si perde. Quando Charlie è stato attaccato, i bersagli eravamo tutti noi. Purtroppo alcuni, compresa buona parte della politica internazionale, non l’hanno ancora capito, non si sono ancora resi conto davvero che una mattina, nel centro di Parigi, un giornale è stato attaccato e i suoi giornalisti sterminati>>.

Chi è il responsabile per i fatti del 7 gennaio 2015?

<<La stampa internazionale, i politici francesi, gli intellettuali della Gauche sono i maggiori responsabili di quanto accaduto il 7 gennaio.

Charlie Hebdo è stato lasciato solo, nonostante pochi anni prima la redazione fosse stata messa a fuoco. Ma allora i politici dissero che ce l’eravamo andata a cercare. Che facevamo le vittime, che in fondo eravamo “solo” dei vignettisti. Cosa vuoi che conti un vignettista? si diceva. Il mancato supporto delle Istituzioni di allora ha lasciato passare il messaggio che noi fossimo davvero responsabili di qualcosa.  Il 7 gennaio fu un regolamento di conti che tutti noi sapevano sarebbe arrivato>>.

Che ricordi hai di quel giorno?

<<Per un’incredibile coincidenza durante l’attacco non ero in redazione. Ero in banca e avevo il telefono spento. Quando l’ho riacceso, sono stata inondata da una valanga di messaggi e ho capito. Ancora non si sapeva se ci fossero state vittime, ma io ne ero certa. Erano anni che ce l’avevano giurata, precisamente dal 2007.

Di quello che è accaduto in seguito, a distanza di tempo, ho ancora oggi ricordi confusi ma so che alla stazione di polizia, mentre uno dei detective mi spiegava la situazione, io gli chiesi perché nessuno avesse protetto Charb, che era stato esplicitamente minacciato. Lui disse che non ne aveva idea, soprattutto perché, in base alle informazioni di cui disponevano, da mesi la questione non era “se” ci sarebbe stato un attacco, ma “quando”>>.

Marine Le Pen ha mostrato in più occasioni un sostegno a Charlie senza se e senza ma, tutt’altra cosa rispetto ai distinguo continui degli intellettuali liberal francesi ma anche europei – penso ad alcuni articoli fortemente critici del Guardian.

<<Marine Le Pen strumentalizza Charlie Hebdo per indirizzare l’odio dei francesi verso alcune comunità specifiche. Noi non promuoviamo l’odio per nessuno.  Ma ammetto che da Le Figaro abbiamo ricevuto molto più supporto che da molti giornalisti e intellettuali della Gauche.  Questa è la spia di un movimento profondo: la sinistra, non solo francese, rifiuta di prendere una posizione chiara a difesa della libertà di espressione perché ha paura>>.

Di cosa?

<<Di rompere i dogmi inviolabili del politicamente corretto. E di vedere messi in discussioni i privilegi che ha conquistato nel corso degli anni. Quelli che negli anni ’70 contestavano la borghesia, ora sono loro stessi la borghesia. Hanno voltato le spalle ai ragazzi che furono e non sono stati rimpiazzati da nessuno. I giovani – alle prese con una crisi mostruosa – sono troppo occupati nelle loro mille battaglie individuali per formare una coscienza di classe. Questo crea una dialettica sociale nuova, dove questa strana borghesia, spesso liberale solo a parole, non viene messa in discussione da nessuno>>.

Vi ha sorpreso il supporto che avete ricevuto dopo il 7 gennaio?

<<Ci ha commossi ma ci anche fatto sentire in difficoltà, perché sapevamo che molte di quelle persone, a cominciare dai politici, non avevano idea di cosa fosse Charlie e quindi sapevamo che in futuro saremmo andati incontro a fraintendimenti.  L’esempio più eclatante è stato quando Obama ci ha invitato alla Casa Bianca, ma solo a condizione che nessuno di noi gli rivolgesse una domanda. Abbiamo rifiutato>>.

Non c’è ora il rischio di diventare voi stessi una sorta di Autorità della Libertà di Espressione, alla maniera degli Ayatollah?

<<Sì, e infatti ci teniamo sempre a ribadire che noi siamo solo un giornale, non il Testo Sacro della Libertà. Rifiutiamo fortemente lo status di “simboli”, di “monumenti”. Siamo persone che di mestiere fanno i giornalisti. Potete non essere d’accordo con quello che pubblichiamo, ma non potete obbligarci a smettere di esistere>>.
Noto che la scrivania di Marika e’ invasa da faldoni. Mi spiega che si tratta dei messaggi di insulti o minacce che arrivano quotidianamente sulla pagina facebook di Charlie Hebdo. Vengono tutti presi in consegna dall’Antiterrorismo francese che li esamina ad uno ad uno. La cosa interessante e’ che i mittenti non provengono quasi mai da qualche oscura regione Siriana ma sono quasi sempre europei.
Parliamo della vignetta sul terremoto all’italiana. Come mai secondo te ha sollevato un’ondata di indignazione cosi’ enorme?

<<Il problema è stata la rappresentazione dei corpi. Come per la vignetta del bambino siriano, la gente non ci perdona la rappresentazione del corpo martoriato delle vittime. Ma quello che è decisivo affermare e ribadire con forza è che la rappresentazione è un mezzo, non è mai un fine. Credimi, noi il rispetto per la morte e per le vittime lo conosciamo da vicino>>.

Vi aspettavate una reazione di questo tipo?

<<Non abbiamo mai l’intenzione di offendere fine a se stessa, ogni volta è una sorpresa. Lavorando a Charlie da decenni posso dire con certezza che negli anni ’90 vignette molto più controverse non generavano le reazioni che adesso vediamo quasi quotidianamente. Vignette del genere oggi non verrebbero nemmeno proposte, essendo l’Occidente entrato da un pezzo in un’era in cui la censura si è trasformata nella sua forma più terribile: l’auto-censura>>.
Facciamo una pausa, andiamo nella sala caffè. Sembra quella di un ufficio normale, c’è un flipper, solo che qui ci sono i vetri antiproiettili.

C’è anche Coco. La vita dei collaboratori di Charlie ha perso spontaneità, ma certo loro non hanno perso vitalità. Coco fa domande, è curiosa di tutto, ti osserva da fuori indovinando la tua contraddizione interiore per poi rappresentarla su carta con una vignetta. La cosa incredibile è che ci azzecca sempre. Mentre la osservo non riesco a smettere di pensare al momento in cui con un salto ha evitato la sferragliata di proiettili letali per i suoi colleghi e mi sento tremendamente in colpa per ridurla costantemente, dentro la mia testa, al ruolo della vittima.  Le chiedo del suo lavoro per scacciare quel pensiero.

Come funziona il tuo processo creativo?

<<La satira secondo me ha a che fare con la ricerca. A volte dura 5 minuti, a volte ore e quando finalmente trovo l’idea è spiazzante perché arriva sempre come una sorpresa. Quello che cerco di fare è creare un contrappunto, un incrocio tra piani di senso diversi in modo da crearne una sfumatura completamente nuova sul determinato pezzo di realtà che osservo. Quella sfumatura, quel senso nuovo, quella è la satira>>.

Qual è la qualità fondamentale di un vignettista?

<<Per fare il vignettista non ci vogliono solo le mani, ci vogliono anche gli occhi. Bisogna sforzarsi di guardare un po’ più lontano degli altri e disegnare ciò che vedi per mostrare a tutti il panorama.

A volte quello che vedo è buffo, altre volte è molto, molto oscuro, proprio come i pensieri. La ricerca del famoso ah-ah-ah non è e non deve essere tra le preoccupazioni del satirico>>.

Scegli deliberatamente di provocare una reazione forte?

<<Non è una scelta: è inevitabile. Disegnare spinge a vedere oltre, a scostare il velo delle apparenze sociali e delle ipocrisie morali. Oltre quel velo c’è sempre qualcosa di scioccante, in un senso o in un altro, sennò non ci sarebbe bisogno del velo>>.

Secondo te perché quello shock invece che far riflettere si trasforma sempre più spesso in rabbia cieca?

<<Perché noi siamo letti con il vocabolario che si usa per capire i media tradizionali, ma parliamo un linguaggio completamente diverso. Per capirci dovresti prima studiare quel linguaggio, e anche in quel caso alcuni continuerebbero a non capire perché il senso dell’umorismo è come il coraggio, nessuno ti può insegnare ad averlo.

Quindi capisco benissimo la gente che non ci capisce e si arrabbia e magari ci insulta. Quello che non capisco è chi ci vuole morti. Noi non abbiamo mai torto un capello a nessuno>>.

Marika annuisce, aspira il fumo dalla sigaretta, lo butta fuori, il tutto con quel modo imperturbabile e determinista dei francesi.

<<Il problema è che molti sono tolleranti solo quando in discussione sono i valori degli altri. I casi dell’Italia e della Russia sono straordinari, e secondo me il motivo è il ruolo giocato dalle Istituzioni. Persone come il Sindaco di Amatrice hanno strumentalizzato Charlie per distrarre l’opinione pubblica ed evitare l’unica domanda che conta davvero, ovvero come una tragedia di quel tipo sia potuta accadere>>.

La questione dell’odio sui social è uno dei temi più controversi di questi anni. Sul punto interviene Marika.

<<I social hanno abituato la gente a reagire di istinto, spingendo alcune persone a sentirsi in dovere di commentare senza prima riflettere. La satira non utilizza un linguaggio immediato ma il mercato ti obbliga ad usare i social, e questo crea una forte contraddizione di fondo>>.

Ma tu preferiresti vivere in una società dove nessuno si indigna per niente, o in una dove tutti si indignano ogni giorno?

<<Beh…credo…credo sia meglio la seconda.  Offendersi per qualcosa è una manifestazione della propria identità, e a volte è doveroso farlo. Certo, preferisco quando si usano le parole invece dei kalashnikov>>.

La tua famiglia, le persone che ti vogliono bene, non vi chiedono di smettere?

(risponde Marika). <<Sono preoccupati, certo, ma non mi hanno mai chiesto di smettere perché sanno cosa questo lavoro rappresenti ora per me. Vedi, se io domani smettessi, riacquisterei in parte alcune libertà, ma rinuncerei a un altro tipo di libertà, secondo me più importante. Paradossalmente, è proprio con la perdita delle piccole libertà della vita di tutti i giorni che contribuisco al mantenimento di un ideale di libertà più ampio, che ritengo fondamentale. Così resisto, aspettando che questo momento finisca>>.

Credi davvero che finirà?

<<Oh, certo che no (ride)>>.

Quello che è accaduto a Coco il 7 gennaio 2015 è stato già raccontato da tutti i media del mondo, e trovo inutile addentrarmi nei ricordi rischiando di fare sensazionalismo. Le chiedo se avere una figlia molto piccola all’epoca dei fatti sia stato di aiuto per superare quel periodo.

<<Nei giorni immediatamente successivi ero spaventata due volte. Come persona, ovviamente, ma anche come madre: non volevo che mia figlia vedesse neppure per un attimo che avevo paura, e non era facile. Ma poi è stato anche grazie a lei se sono riuscita a tornare ad avere una vita normale, pur con le limitazioni che vedi (l’agente di sicurezza che le resta accanto sempre, a meno di due passi di distanza). Non c’è solo lei però, ci sono anche tutte le persone che ho perso quel giorno e che erano tra le più importanti della mia vita. Continuare a disegnare è l’unico modo per continuare a farle esistere. Ed è anche l’unico modo che ho per essere in pace con me stessa>>.

Coco saluta e torna a disegnare, mentre io torno con Marika alla sua scrivania. L’immagine che ho davanti adesso è rivelatrice: a sinistra, ai piedi del tavolo, un giubbotto anti-proiettile, il cui uso – consigliato – diventa obbligatorio quando sale in auto. A destra, sulla scrivania, le minacce di morte ricevute nel corso della giornata. Dietro di lei, un debole sole invernale filtra attraverso finestre bullonate al muro, impossibili da abbattere e da aprire.

Immagino non riceviate molte visite sul lavoro.

Nessuno sa dove ci troviamo, escluso qualche giornalista, neppure una decina, che è tenuto alla riservatezza. Sappiamo però che prima o poi il segreto sarà rivelato e dovremo trasferirci ancora, come abbiamo già fatto.

Ma come si fa ad essere divertenti in un ambiente del genere?

Devi sforzarti di dimenticare dove ti trovi e concentrarti solo sul tuo lavoro. L’emergenza non è passata, la Francia è ancora sotto attacco, non puoi entrare dentro un centro commerciale senza che ti perquisiscano la borsa, chiunque tu sia. Ci devi coesistere, che tu lo voglia o meno, perché se smetti di farlo, smetti di vivere.

Siete sicuri che il mondo voglia davvero Charlie?

Per i tanti che ci odiano, ci sono tantissimi che ci sostengono e capiscono quello che facciamo, anche se magari non sempre lo condividono. Ma noi vogliamo continuare a esistere proprio per chi ci detesta: vogliamo continuare a dar loro la  possibilità di scegliere di odiarci.

Pensi che ci avviamo alla fine dell’era Illuminista, fondata sul primato assoluto della libertà di espressione?

Questi sono tempi oscuri e per molti versi terribili, ma vedo comunque una luce in fondo al tunnel. Uno degli aspetti che più mi ha colpito dopo la strage è stato il modo in cui hanno reagito i bambini. I bambini amano la libertà, e infatti amano disegnare perché per loro è uno dei massimi gesti con cui esprimerla. Il 7 gennaio 2015 molti bambini in tutto il mondo hanno capito che delle persone sono morte per un disegno.

Eppure i bambini disegnano ancora.

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