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Dal talk show al clapping show: un applauso perpetuo ci seppellirà

29 Marzo 2019

Chi è il vero protagonista dei talk show?
Il politico? Il presentatore? Le inchieste? L’ospite qualificato dai toni pacati? L’ospite istrionico spesso incazzoso e a volte qualificato? L’ospite istrionico tout court o qualsiasi altra figura televisiva capace di dare impulso a uno spirito dialettico raccogliticcio? Gene Gnocchi sopravvissuto alla sua abilità di far ridere?

Nessuno di questi. Il vero protagonista dei talk show è l’applauso. Inequivocabilmente.
Non siete convinti? Provate a fare un giro di perlustrazione su La7 durante la messa in onda del programma DiMartedì. Garantiamo, fugherete ogni dubbio.

Applausi, applausi e ancora applausi. Stucchevoli. Dal minutaggio implacabile. Restituitici a un volume altissimo. A sottolineare quasi ogni singolo passaggio della discussione. Anche le faccette. Non un talk show, ma un clapping show.

Come spiegare questa deriva?
O Floris ha un talento prodigioso nello scovare personaggi carismatici in grado di rendere la sua trasmissione irricevibile o la metamorfosi in applauditorium del suo studio televisivo obbedisce ad altre logiche. E, considerando il talento retorico medio delle classi dirigenti di cui disponiamo, nonché la presenza fissa della claque zelante in dotazione al politico di turno, saremmo più propensi a credere che il sovrabbondare di animali da dibattito sia una finzione scenica ben congegnata.

Magari allo scopo di conferire ritmo al programma. O per suscitare empatia nel telespettatore (come per le sitcom quando si utilizzano le risate registrate). Oppure per rassicurare l’ospite, invogliandolo a farsi intervistare in un ambiente in apparenza arrotondato; sebbene le sedute su casse di legno prive di schienale mirerebbero, forse, a ripristinare il giusto tasso di spigolosità.

Il problema è che il continuo ricorso a un accerchiamento plaudente – esiziale in DiMartedì e noto pure ad altri contesti affini (dagli applausometri leggermente meno sollecitati) – finisce con l’abituare l’esponente politico che vi si sottopone a orientare la propria cifra espressiva sull’emotività, cifra espressiva prediletta. Abituando, di conseguenza, anche lo spettatore a una comunicazione sloganistica, enfatica, disorganica, fatta di battute a effetto fabbricate su misura per essere strette nella morsa dell’applauso. E uccidendo nella culla ogni velleità analitica, ogni possibilità di pensiero critico, ogni complessità, già messe a dura prova dalla genetica del medium di massa. In sintesi severgniniana: “Ontologico è una parolaccia, non si può dire in televisione”.

Precisazione doverosa: per chi non lo sapesse, “severgniniano” deriva da Beppe Severgnini, che non avrebbe mai immaginato di diventare un aggettivo e non avrebbe mai immaginato di diventare a sua volta una parolaccia, almeno in questo spazio testuale. Ma non deragliamo.

Popper suggerisce: informare è educare. Non solo perché chi informa esprime sempre una tendenza nel compiere una cernita dei contenuti che propone, ma, soprattutto, perché, nel proporli, sceglie una determinata modalità comunicativa. La quale non può non incidere sulla costruzione e sulla ricezione degli stessi.

E quando il paradigma comunicativo selezionato risulta così confortevole per l’attitudine diffusa alla propaganda permanente, diventa davvero difficile per il giornalista, a prescindere dallo spessore del medesimo, svolgere il proprio compito di sorveglianza del potere in maniera corretta.

Il “prima gli italiani” e altre cazzatone evocative fatte della stessa materia di cui è fatta la vaghezza, di base, hanno una marcia in più rispetto a un approccio critico puntuale, perché sono riempibili a piacimento da chi ascolta, così da favorire l’immedesimazione. Sono più veloci, più semplici, più maneggevoli.

Se poi vengono incorniciate costantemente in una spellatura di mani da torcida proprio laddove dovrebbero essere smontate, acquisiscono ulteriore credito, coprendo la loro inconsistenza.
A farne le spese, neanche a dirlo, è la qualità del tessuto democratico nel suo insieme. Non esattamente una questione secondaria: sarà un caso che i politici, in particolar modo quelli ai vertici dei partiti, accettano volentieri di farsi intervistare ma evitano come la peste il confronto con i parigrado?

Inutile girarci attorno. Affinché l’eco della debolezza dei contenuti propagandistici possa rimbombare liberamente nelle teste degli spettatori, sarebbe auspicabile ripulire i talk show dagli applausi in via definitiva. Al massimo, per compensare, si potrebbero introdurre delle pernacchie fuori campo. I nostalgici ringrazierebbero.

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