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Dagli studios al divano di casa: viaggio nella fabbrica delle serie tv USA
Recentemente, Los Angeles ha ospitato la 76ª edizione degli Emmy Awards, la serata che celebra il meglio della televisione americana. Quest’anno, il canale FX ha dominato la scena con le sue serie Shogun e The Bear, conquistando ben otto premi. Anche altre serie di successo come Baby Reindeer di Netflix, la quinta stagione di Fargo e True Detective: Night Country di HBO hanno portato a casa diversi riconoscimenti. Questi titoli, insieme a molti altri vincitori degli ultimi anni, formano una sorta di enciclopedia delle migliori e più acclamate serie televisive americane. Succession, The Crown, Trono di Spade, Breaking Bad, Homeland, Mad Men, 24, I Soprano, Lost: solo alcuni nomi che, nel tempo, hanno appassionato spettatori in tutto il mondo, trasformando la serialità americana in un fenomeno globale. Queste serie, infatti, non sono solo “made in USA”, ma sono riuscite ad abbattere barriere geografiche e linguistiche, diventando popolari ovunque. È un risultato importante, soprattutto per chi conosce le sfide nel far diventare mainstream un prodotto culturale che nasce come locale.
Ma come si passa dall’idea creativa di un singolo a una serie che tiene incollati al divano milioni di spettatori? Qual è il modello industriale che rende possibile tutto questo? E perché alcune serie riescono dove altre falliscono? La risposta non è semplice: il percorso dalla scintilla creativa al prodotto finito è ricco di variabili. La produzione di una serie televisiva cambia a seconda che sia destinata a un network tradizionale, a un canale via cavo, o a una piattaforma OTT (Over-The-Top) come Netflix o Amazon Prime Video. C’è un “prima” e un “dopo” la pandemia, un “prima” e un “dopo” l’avvento delle piattaforme streaming. E, all’interno del mondo seriale, produrre una soap opera è molto diverso da produrre un drama o una comedy. Ogni progetto ha le sue peculiarità, ma esistono dei modelli di riferimento che ci aiutano a capire come nasce una serie TV.
Modelli produttivi tradizionali
Prima dell’avvento degli OTT, il modello produttivo di riferimento delle serie TV americane era dominato dalle grandi reti televisive, i network, come ABC, CBS, NBC e Fox. Queste reti seguivano un modello di produzione stagionale, in cui ogni serie veniva prodotta in stagioni composte da un numero fisso di episodi, solitamente tra 22 e 24. Questo modello era strettamente legato alla programmazione televisiva tradizionale, che prevedeva la trasmissione di un episodio alla settimana durante la stagione televisiva, che andava da settembre a maggio. Per capire come funzionava la filiera del modello classico per i network, il punto di osservazione ideale è quello dettato dall’obiettivo finale: avere prodotti pronti per l’inizio della stagione televisiva “di garanzia” americana. Cioè, settembre- ottobre. Tutto il resto si organizza in funzione di questo obiettivo. E bisogna sapere che questo processo è tutt’altro che breve: parte con circa un anno di anticipo.
È un processo a imbuto in cui si passa da uno step all’altro secondo un criterio di selezione rigidamente darwiniano.
Il processo
Si comincia con un concept: un autore, uno sceneggiatore, un produttore, sono tanti i possibili padri di un’idea originale o adattata che ha in sé la potenzialità di diventare un racconto audiovisivo. A volte l’idea è originale altre volta si tratta dell’adattamento di un libro o di qualcosa presente su altri media, piuttosto che del reboot di un film. Lo strumento per presentare il proprio contenuto si chiama pitch ed è una presentazione sintetica del contenuto, dei personaggi principali e degli sviluppi dello show che vengono proposti a centinaia ai responsabili dei network.
Di tutto quello che arriva, una gran parte sparisce subito, silenziosamente, verso l’oblio; un’altra, quella degli eletti, prosegue il suo cammino verso il passaggio successivo, l’avvio della scrittura: spesso si tratta della scrittura del pilota e di una bibbia, che spiega compiutamente lo sviluppo della serie e introduce i personaggi, approfondendoli in modo che quanto avviene nell’azione sia coerente con loro. Fino ad arrivare alla stesura della sceneggiatura completa del pilota. È in questa fase che iniziano gli interventi sottoforma di suggerimenti, feedback e revisioni dei responsabili editoriali degli studios. Alla fine di questo processo che è ancora tutto su carta, parte la seconda implacabile selezione. Solo una piccola parte dei progetti viene scelta per diventare un pilot, un episodio completo, girato, con una sceneggiatura ad hoc, un regista e un cast. Spesso sui pilot si stanziano cifre importanti: sono quello che gli executive degli studios porteranno ai network per farsi scegliere. Ricerche di mercato, analisi desk raffinate, interminabili discussioni fra gli executive per dare finalmente la luce verde al progetto e fare un ulteriore passo avanti. Ultimo passaggio, finalmente: entrano in gioco i network a cui vengono proposti in visionamento i pilot e forniti tutti i dettagli in modo che abbiano gli elementi per decidere se quello presentato è “il prodotto”.
Una volta che un pilot viene scelto, inizia una corsa contro il tempo. A differenza dell’Italia, dove una fiction viene interamente girata prima di essere trasmessa, negli Stati Uniti si scrive e si produce mentre le prime puntate sono già in onda. Questo modello permette di fare correzioni in corsa e di evitare di accumulare prodotti invenduti, ma è anche molto costoso.
Contemporaneamente, parte anche una corsa ai finanziamenti: negli upfronts, una sorta di convention che si tiene a New York, dove i network televisivi presentano la loro programmazione per la stagione televisiva successiva agli inserzionisti, con l’obiettivo di vendere spazi pubblicitari in anticipo. E poi a maggio durante i Los Angeles Screenings, importante evento annuale, durante il quale gli studios di Hollywood, come Warner Bros., Disney, CBS Studios, e altri grandi produttori, aprono le loro porte ai compratori internazionali di contenuti televisivi mostrando loro i pilot delle nuove serie con l’obiettivo di venderne i diritti di trasmissione anche all’estero..
L’irruzione delle piattaforme Over-the-Top (OTT)
L’ingresso nel mercato degli OTT (Netflix, Amazon Prime Video, Disney+ etc.) oltre ad aver rivoluzionato la modalità di fruizione degli audiovisivi, ha anche introdotto un nuovo modello di produzione e distribuzione, accanto a quello tradizionale.
Un primo punto importante da considerare è che le piattaforme operano su un mercato sovranazionale: vendono abbonamenti in tutto il mondo, spingendoli attraverso i loro prodotti originali (e non solo). Opportunità finanziaria: numero di abbonati potenziale molto alto. Rischio contenutistico: tanti contenuti, trasversali, che devono riuscire ad appassionare spettatori in tutto il globo. E dimensione economica: sono prodotti costosi, senza abbonamenti il modello di business non tiene.
La forma del business, l’abbonamento, disegna anche la strategia produttiva e quella di acquisizione dei contenuti.
Il modello produttivo e gli spettatori
Anzitutto, il processo di scrittura e di produzione non si interrompe mai o comunque non sottostà ai vincoli di stagionalità come per il modello network. Le piattaforme streaming non devono rispettare una rigida stagionalità come le reti broadcast. Questo significa che possono rilasciare nuovi episodi o stagioni in qualsiasi momento dell’anno. E lo fanno perché hanno necessità di mantenere e magari incrementare il numero di abbonati che danno loro la benzina finanziaria per continuare a operare. In questo modo, la produzione di una serie può avvenire in modo più lineare, senza pause forzate. Altra novità importante è l’ordine diretto della stagione: mentre in passato si produceva un pilota prima di decidere se procedere con una stagione intera, le piattaforme OTT spesso commissionano direttamente stagioni intere. Questo elimina l’incertezza legata alla fase del pilota e permette agli sceneggiatori di pianificare meglio la narrazione a lungo termine.
Una delle ricadute sullo spettatore di questo modello produttivo è il binge-watching, il rilascio completo di una stagione in un’unica soluzione che consente agli utenti di fare abbuffate dei prodotti pubblicati in piattaforma, guardando più episodi o l’intera stagione in una sola sessione. Questo ha cambiato anche il modo in cui le storie vengono scritte: invece di puntare su cliffhanger settimanali per mantenere l’attenzione del pubblico, gli sceneggiatori si concentrano di più sugli archi narrativi a lungo termine, con un approccio più cinematografico. Questo era vero soprattutto all’inizio, ora alcuni servizi (come Disney+ o HBO Max ma ora anche Netflix e Prime video) hanno ricominciato a utilizzare il rilascio settimanale o per tranche per costruire il coinvolgimento del pubblico a lungo termine e non disperdere un rilevante valore economico in un lasso di tempo molto breve.
Gli OTT hanno anche introdotto cambiamenti apparentemente formali ma significativi nei modelli produttivi delle serie TV. Invece di seguire il modello stagionale tradizionale dei network generalisti a 22-24 puntate, molte serie prodotte dagli OTT hanno stagioni più brevi, spesso composte da 8-10 episodi. Questo permette maggiore flessibilità nella produzione, maggiore attenzione alla qualità di ogni episodio, ma anche un maggior numero di titoli nuovi (amplificazione dell’effetto varietà dell’offerta).
La caccia ai talent
Non solo si produce in modo diverso e con formati diversi, ma si produce anche di più: più piattaforme, significa maggiore necessità di nuove serie. Più prodotto, però, significa anche necessità di più professionisti capace di produrre e, nel tempo, si è scatenata la guerra ai talent. Registi e attori di fama cinematografica sono stati attirati dalla promessa di maggiore controllo creativo, di produzioni ad alto budget e di compensi stellari. Ma non solo loro, gli altri grandi player cercati sul mercato sono stati gli showrunner: hanno fatto scuola gli accordi con Netflix di Shonda Rhimes (la geniale creatrice di Grey’s Anatomy, Scandal, How to get away with murder per ABC) e di Ryan Murphy (Nip&Tuck, The Glee, 9-1-1).
Anche qui c’è un però: all’inizio quando era sola, Netflix si è trovata di fronte a un mercato dei creativi molto ampio: ha potuto scegliere. Poi, quando le piattaforme sono aumentate, si è creato un effetto frammentazione e scarsità. La maggior domanda di creativi non ha prodotto un automatico aumento del loro numero ovviamente. Questo, insieme ai costi fuori scala, ha portato a un rallentamento degli originals e alla riscoperta delle library anche come fattore di riequilibrio dei costi, sia per chi vende che per chi acquista.
La tecnologia
Se non si basano più sul sistema dei piloti nella fase finale della selezione dei prodotti, a cosa si affidano gli OTT? L’aspetto tecnologico è fondamentale: le piattaforme hanno accesso a una mole di dati sui comportamenti di visione che influenzano direttamente le decisioni di produzione: commissioning basato sui dati. Le decisioni su quali serie produrre sono sempre più guidate dall’analisi dei dati di visualizzazione e da analisi predittive
Il modello di business
Ancora, i modelli di finanziamento stanno evolvendo verso un modello ibrido (HVOD) che combina abbonamenti e pubblicità, una mossa necessaria per coprire i crescenti costi di produzione. I budget per episodio, infatti, sono saliti a cifre impensabili per i network tradizionali, come dimostra il caso della serie Il Signore degli Anelli, che, per la prima stagione, si dice abbia raggiunto un costo record di 450 milioni di dollari per 8 episodi.
Globalizzazione e gusti degli spettatori
Le piattaforme hanno anche realizzato praticamente un modello di globalizzazione della produzione e del consumo integrando nelle proprie library contenuti locali per un pubblico globale: serie come “La Casa di Carta” o “Squid game” o “Fauda” hanno dimostrato il potenziale globale di contenuti non in lingua inglese.
C’è un’ultima ricaduta importante di questi cambiamenti di modelli produttivi e di offerta: gli spettatori delle piattaforme hanno scoperto nuovi mondi narrativi. Cioè, noi spettatori abbiamo capito, quasi casualmente, che ci piacciono cose che, prima, manco immaginavamo potessero esistere. Un esempio per tutti: Shtisel, serie israeliana, storia di una famiglia che vive in un quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, affrontando i problemi della vita di tutti i giorni in un continuo tira e molla fra appartenenza religiosa integrale e irruzione della modernità, raccontati con un’alternanza di registri raffinati e sfumature da soap opera. Un grande successo nonostante la serie sia stata resa disponibile sulla piattaforma Netflix solo nel 2018, 5 anni dopo il suo esordio, inosservato a livello globale, su un canale televisivo israeliano. E che questa serie è stata resa disponibile senza doppiaggio, in lingua originale con sottotitoli.
Un mondo interessante e articolato quello della produzione delle serie. Esattamente come il mondo dell’audiovisivo, vive cambiamenti costanti e a volte dirompenti. Cosa che, tutto sommato, non ci interessa tanto, finchè siamo sicuri di avere la nostra scorta di buoni prodotti da goderci in pace sul divano di casa.
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