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Come far dire a un autore ciò che si vuole
Durante la trasmissione Matrix del 1 marzo, sul finire della campagna elettorale e incastonato tra un’intervista a Berlusconi e un’intervista a Silvio Berlusconi, è andato in onda un cameo di Katia Ricciarelli che non cantava ma leggeva La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci.
O meglio, leggeva un collage tratto dalla parte finale del lungo, furioso sfogo che Oriana Fallaci scrisse su richiesta di Ferruccio de Bortoli all’indomani dell’11 settembre 2001. Fece scalpore, allora, quella voce battagliera e irriverente, in un momento in cui il mondo era sbigottito e paralizzato.
Fa tristezza e paura adesso manipolato, tagliuzzato, ricontestualizzato e reinterpretato dalla soprano di Rovigo.
Immaginate quanto doveva essere esasperata Oriana Fallaci, che ne aveva viste e fatte di tutti i colori in lungo e in largo per il mondo e per la Storia, e quanto doveva essere incazzata con l’Italia (e forse pure con il sempre galante ma insistente de Bortoli) quando scriveva “difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale”. E poi aprite il video e ascoltate la stessa frase letta con tono didascalico dalla ex signora Baudo.
L’Oriana proseguiva: “Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d’essere un’ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione”.
La Katia però questo pezzo lo salta. E anche la colorita descrizione dei mussulmani accampati a Firenze, e la debole reazione del sindaco e del ministro degli Esteri alle sfuriate della giornalista. Salta, la Katia o l’autore che le ha cucinato il brano, direttamente al punto in cui si elencano gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani: per non far torto a nessuno.
Se avete voglia di seguire il gioco, prendete il testo di La rabbia e l’orgoglio e cercate di seguire l’audio del video: conoscerete l’orgasmo del redattore. È quando il Direttore ti chiede di tagliare di tre quarti la lunghezza di un testo, e magari di toglierne un certo pezzo di senso per farne emergere un altro. E tu ti lanci a cercare connessioni sintattiche, a congiungere un soggetto a pagina sette con un verbo a pagina nove cancellando tutto quello che c’è in mezzo (stando attenti alle concordanze: un aggettivo in un’incidentale può far crollare tutto).
È un’operazione di montaggio. O di montatura. In questo modo puoi far dire a un autore tutto quello che vuoi, e con parole sue. Poi fallo leggere a una signora bionda colta ed elegante, con uno sguardo azzurro intenso e una interpretazione da corso serale di teatro che potrebbe essere pure tua cugina. Inseriscilo senza commenti in un’intervista dello “scomodo” Verderami e il gioco è fatto.
Katia se la prende, saltabeccando nel testo, con i venditori ambulanti di merce contraffatta e forse droga. Oriana aggiungeva: “E la gente sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l’avete un po’ d’orgoglio, pecoroni?»” Questo passaggio nel video manca. Siamo in campagna elettorale.
Oriana, tra un insulto e l’altro, ammette: “E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale’s. Si vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato.”
Ne ha per tutti, la Fallaci, in questo scritto del 2001. Ne ha per tutti e ne argomenta. E che le argomentazioni ci piacciano o no, che fossero plausibili o servissero da miccia alla polemica, però lei – che aveva affrontato Khomeini e Gheddafi a casa loro – poteva sostenerle. Alla signora Ricciarelli, di cui nessuno nega i meriti artistici e che ha girato il mondo pure lei ma ne ha visto un altro aspetto, gli autori tv hanno risparmiato questa fatica.
Oriana dà degli stronzi ai ministri e della mangiapreti a sé stessa. Katia invece corre diretta al punto in cui “da noi non c’è posto per i muezzin, per i minareti”. Da lì si passa al discorso sulla patria. “Io sono italiana”, dicono l’una e l’altra. Oriana lo dice a proposito dell’America. Katia a proposito di niente. Però gongola ad accennare l’inno di Mameli (“parapà-parapà-parapà” finalmente si canta! Oddio, si canticchia).
E poi c’è la bandiera. Il Tricolore. (Oriana, sola: “Teppisti degli stadi a parte, s’intende”). In coro: “Siamo morti per quel tricolore, Cristo!”
Oriana: “Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni” seguono, ma solo per Oriana, il Risorgimento, il Carso, la Resistenza. Curtatone e Montanara, e anche il padre arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Katia, elegantemente, glissa.
Entrambe concordano: “Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l’Italia d’oggi”.
Oriana, un po’ più precisa, un po’ più toscana, specifica meglio: “L’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut, ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L’Italia squallida, imbelle, senz’anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco”.
Alla Katia questa parte sembra irrilevante, le preme di più un passaggio di curiosa attualità (e qui l’orgasmo del redattore ha raggiunto l’apice): “L’Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi”.
Sospiro finale. Oriana, mandando definitivamente a pascere il buon Ferruccio, conclude: “Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito”.
Per Katia, il redattore post coitum ha avuto un momento di tenerezza.
E “l’età” gliel’ha tolta.
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