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Checco Zalone è più importante di Nanni Moretti
Se ne è parlanto tanto, è vero. Forse troppo. Ma di un successo, o meglio del successo di Luca Medici, in arte Checco Zalone, e del suo ultimo film Quo vado?, è giusto che se ne parli. Se ne deve parlare.
Al di là, e ben oltre, delle implicazioni sociologiche e delle interpretazioni politiche, che intellettuali e commentatori di ogni specie affidano da giorni a colonne di giornali, Quo vado? va preso così, per quello che è.
Un film leggero, ironico, divertente.
Ciò non vuol dire che sia disimpegnato: tutt’altro. A differenza dei soliti cinepanettoni, ormai ingessati su battute consumate e su sketch scontati, Luca Medici ancora una volta ha saputo perfettamente conciliare il momento comico all’amarezza di uno sfondo malinconico, come la buffonesca narrazione delle disgrazie del Paese.
Checco Zalone non è l’anti-italiano; non incarna un punto di vista superiore rispetto alle persone e alle cose che lo circondano, e per questo non restituisce uno sguardo moraleggiante.
Zalone è il totem dell’italianità. Piace ed ha successo perchè è di una facilità disarmante riconoscersi nelle sue imprese, nei suoi pensieri, nelle sue cadute. Annulla la cesura tra i fatti e lo spettatore, restituisce brandelli di una vita scalcinata, che assomiglia in molto o in parte a quella di tutti noi.
In Quo vado? Luca, in arte Checco, non ribalta la realtà per far ridere; non la fissa in stereotipi per renderla farsa. La fotografa, e basta. La restituisce intatta.
É quella la vita del piccolo borghese impiegato pubblico di provincia? Sono quelle le aspirazioni, i pensieri del cinico travet italiano? È questa l’Italia in cui davvero nulla cambia?
La gente va al cinema, comunque. Si affanna per vedere Checco. Tutti lo vogliono.
Si rivedono negli schermi 4k di cinema inaugurati in fretta e furia solo per distribuire lui, e, per una volta, non si dispiacciono di essere messi a nudo e derisi.
Sembra di sentirlo, Luca, dietro la parete della finzione: “Cosa ridi, tu, in prima fila? Sei tu quello nello schermo! Di cosa di compiaci, spettatore? Questo Paese è finito”.
Eppure, il fatto che si riesca a guardare con ironia e ridere del periodo di crisi, che solo ora accenna a diminuire, è il segno tangibile che ne stiamo uscendo davvero o, forse, l’incoscia certezza che questo Paese sia irrimediabile. Che non sia guaribile. Che la frustrazione degli italiani, di quelli che ci hanno provato o sperato che qualcosa finalmente cambiasse, può essere lenita solo dalla non coscienza, dall’uccisione di ogni velleità di rinnovamento.
Perchè un film, come quello di Checco Zalone, è non comico. É grottesco.
Un film del genere dovrebbe fare infuriare, farci diventare violenti.
Spingerci a diventare cittadini e uomini migliori, proprio come quei norvegesi utilizzati nella pellicola come termine per un confronto bruciante. Per questo è ancora più importante andare a vederlo: perché riesce a far riflettere in modo più efficace, perché fa ridere, e perché è già fenomeno di massa, in grado di far ridere e riflettere una platea vastissima. Molto di più e meglio di tanti film di nicchia, esclusiva di una certa categoria di cineasti di sinistra, che vogliono far riflettere, che grondano sofferenza e introspezione, ma che nessuno vede.
Eppure, la gente ride. Ride e basta. Senza pensare. Senza piensieri.
Già, forse perchè nulla d’altro può servire.
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