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Se pensa che i giornalisti sono addomesticabili, Burioni ci ha preso
Cosa pensano di noi gli altri, sembra chiaro da parecchi anni. Noi siamo noi, i giornalisti, quelli del tesserino rosso, che hanno sempre pensato di essere un po’ superiori a tutto il genere umano. Per un bel po’ è stato anche così, vivendo costantemente al di sopra delle nostre possibilità, alberghi megastellati, viaggi, cene lussuriose, insomma mondo, epperò con l’obbligo morale di capovolgerlo e raccontarlo dalla parte dei poveracci. Un paradosso evidente che è meglio non approfondire. Ma adesso che siamo tutti pari, perché il tesserino rosso è chiuso nel cassetto e non si muove più (gira ancora una modestissima parte di inviati, ma smetterà presto), il mondo lo si racconterà da remoto. Triste, solitario y final. Sulle cause, possiamo star qui una settimana. E non ci metteremmo d’accordo. Ma è chiaro che se hai fatto il figo tutta la vita, credendoti Cacini, nel momento di difficoltà (economica, sociale, di credibilità), gli altri una mano non te la daranno. Giusto così. In un suo scritto di qualche giorno fa, Marco Bardazzi, molti anni da cronista e ora alto dirigente Eni, ha sostenuto che le notizie non bastano più a giustificare la vita dei giornali di carta, i quali non sono più economicamente sostenibili. Noi invece siamo andati ancora un passo indietro, chiedendogli conto del perché siano proprio le notizie a essere sparite dai giornali. Dibattito interessante, il suo più economico, il nostro culturale, che un giorno o l’altro riprenderemo. Ma il punto oggi è un altro.
Il punto, questo sì vitale, che ci è balzato all’occhio come un fastidiosissimo moscerino che si infila nel bulbo, si è palesato nel momento in cui l’ormai irrefrenabile professor Burioni, insieme ad altri allegri colleghi, ha stilato un manualetto di pronta beva con cui fronteggiare il dopo virus, il cui titolo, ambizioso è: «Coronavirus, una proposta per riaprire l’Italia», sostanzialmente la creazione di una “Struttura di monitoraggio e risposta flessibile dell’infezione da SARS-CoV-2 e della malattia che ne consegue (COVID-19) e, possibilmente, in futuro, di altre epidemie». Il tutto sotto il coordinamento del governo. Una cosa seria dunque, disposta su cinque punti (la trovate sul suo sito: medicalfacts.it), il cui punto 5 è dedicato proprio all’informazione e ai giornalisti:
5) «Condivisione della strategia comunicativa con l’Ordine dei Giornalisti e i maggiori quotidiani a tiratura nazionale, nonché le principali testate radio-televisive pubbliche e private per evitare i danni potenziali sia dell’allarmismo esagerato che della sottovalutazione facilona o addirittura negazionista (utilizzando anche l’esperienza sul campo nel rapporto medico-paziente)».
Che mondo immagina dunque il nostro allegro professore? Un mondo in cui le notizie le si decide insieme, quelle sulla sanità con i medici, quelle sulle aziende con i manager, quelle sulle società sportive con i presidenti, e via di questo passo. Una condivisione informativa, insomma, certo a fin di bene, in cui tutto ciò che esce sui giornali è l’estratto migliore, eticamente impeccabile, di un confronto tra le parti. Naturalmente, le visioni giornalistico-informative di monsieur Burioni non potevano passare inosservate. E così dalla rete, avamposti preoccupati hanno fatto partire bordate di ritorno con accenti che non prevedano appelli: a un passo dal Venezuela, odor di regime, ecc., tutto l’armamentario proponibile di questi casi.
Una domanda, non a Burioni, ma proprio a noi medesimi: benissimo la difesa dei principi, perfetto il rintocco sui pericoli di una possibile deriva, ma il mondo tratteggiato dall’allegro professore non è forse il mondo che stiamo vivendo? Non è il mondo, tanto per essere ancora più chiari, che ci siamo costruiti in questi anni, dove tutti questi soggetti – imprenditori, finanzieri, politici, mestatori, adesso anche gran dottori – credono di avere coi giornalisti un rapporto, diciamo così, malleabile? E se certo una persona seria come Burioni, forse un attimo sopravvalutato come estensore del pensiero unico, crede di poter “condividere le strategie comunicative” dei giornali, questo significa che nella più mite della sue visioni, questo atteggiamento gli sembra perfettamente lecito e di nessuno scandalo. Ma chi gliel’avrà messa nella zucca questa visione, il maledetto virus o la lettura dei giornali di questi ultimi venti/trent’anni?
Il potere dei giornali è finito. Il potere di essere autorevoli, di resistere a qualsiasi tentazione. Perché il problema è esattamente questo e parte dal vertice: se un giornale è forte, la tensione del singolo giornalista a vendere il culo sarà modesta, molto modesta, e se qualcuno vorrà comunque vendersi, significherà che le sue chiappe allora ne hanno irrefrenabile attitudine. E con questi ovviamente non c’è partita. Ma la crisi economica dei giornali, terribile, estrema, dove soggetti esterni pagatori hanno il coltello dalla parte del manico, ha messo negli anni i giornalisti in grande difficoltà. E gli squali, là fuori, sentono l’odore del sangue, avvertono che i pesi sono mutati, capiscono che possono spingersi sempre più in là con le richieste. E “fammi avere le domande”, poi “quando hai scritto mandami l’intervista””, “ah sai, qui in un paio di passaggi ti ho aggiunto una cosa, che sembrava chiarisse meglio”. E poi le veline di governo verso sera, che regolarmente vanno in pagina il giorno dopo. E i pezzi che hanno dell’incredibile, come una paginata su Sala in chiesa che prega a braccia spalancate come Ronaldo nella pubblicità Pirelli. E altri diecimila esempi, ma se volete ci sentiamo in privato perché qui la facciamo troppo lunga.
Ecco, e questa cos’è se non la Condivisione immaginata dall’allegro professor Burioni?
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Immagine del profilo: Alessio Jacona, dalla pagina Facebook di Roberto Burioni
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