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Bufale, post-verità, social media. Ha ancora senso il giornalismo?
Scorrevo, settimane fa, una pagina Facebook, di quelle che fanno migliaia di seguaci sui temi locali. Compare, tra gli altri, un post con il link a un articolo su un politico che avrebbe messo in dubbio le tradizioni natalizie italiche. Una bufala. Subito smentita. Un navigatore, per chiarire bene la cosa, posta un altro link in cui viene spiegato che non è vero niente. La notizia è falsa: anzi, a ‘sto punto non è manco una notizia.
Poco importa, i commenti al vetriolo non tardano ad arrivare. Parole taglienti per stigmatizzare una notizia che non c’è. Poco importa, tanto – leggo qua e là – anche se non è vero, quel che c’è scritto potrebbe esserlo. Prima o poi. Tanto quella persona, quel politico lì ai commentatori non piace e quelle cose, chi lo sa che non le possa dire. Prima o poi. Insomma sia vero o no – siccome quella persona, quel politico lì non garba affatto al navigatore, chissenefrega della veridicità della notizia -: l’importante è commentare, attaccare.
Non siamo nemmeno alla post-verità: siamo al mi faccio la mia verità, comunque sia. E se ti va bene, bene. Se no va bene lo stesso. Altro che la tanto richiesta attenzione alle fonti e la loro verifica. Altro che voglia di uno sguardo limpido e distacco. Altro che il desiderio di notizie separate dalle opinioni. Altro che.
Anzi – su quella o su altre pagine – se per caso qualcuno fa notare che una bufala è una bufala, non è una notizia e men che meno giornalismo, il Vaso di Pandora s’apre un po’ di più. Già, perché alle parole giornalismo e giornalisti, sul Web parte il fuoco di fila: macché giornalismo e giornalisti – ci si scatena sui ‘social’ – quelli sono solo ‘giornalai’, ‘pennivendoli’, ‘tengofamiglia’, ‘lecchini’, ‘servi’, ‘gente in malafede’. E simili. Comunque giudicati corresponsabili – con i politici – della deriva di questo Paese. Sempre che, ovviamente, le parole scritte dal ‘pennivendolo’ non vadano nella stessa direzione del navigatore: in quel caso, sono parole equilibrate, segno distintivo del buon giornalismo contrapposto al cattivo giornalismo. Fino al prossimo articolo, s’intende, che cambiare idea è un attimo.
Non difendo la categoria, a prescindere. Non ci penso nemmeno. Il giornalismo in Italia – e non solo, forse – deve cambiare. Di sicuro. Non tanto e non solo perché le nuove piattaforme, la tecnologia, hanno mutato radicalmente lo scenario quanto perché – e in questi mesi tra Brexit, elezioni americane e Referendum costituzionale se ne è avuta amara conferma – lo scollamento dei media dalla realtà, dalla quotidianità è apparso evidente. Quasi plastico.
Una frattura – difficile da ricomporre? – tra il dipanarsi della vita quotidiana e la sua lettura fatta dalle redazioni, a distanza. E, spesso, con il retrogusto della superiorità morale. Che non fa cogliere gli umori e i piccoli segni. Le ansie e le angosce del vivere giornaliero. Quelle cose che poi, sottotraccia, cambiano la storia. Quasi senza accorgersene. A maggior ragione se non le si tiene in adeguato conto.
Eppure, ammesso che si tenti e si riesca a cambiare, provando ad analizzare le cose dal basso e facendo esercizio di umiltà per raccontare prima le persone e poi i retroscena delle cose di palazzo, si potrà recuperare terreno?
Di fronte a un mondo di lettori-navigatori che sembra non credere più nella comunicazione main-stream; che è pronto a giustificare anche la bufala se non si discosta troppo dal proprio sentire; che per informarsi usa sempre più i social media incurante del fatto che sua ‘maestà’ l’algoritmo proponga proprio quelle notizie che corroborano la propria idea del mondo disegnando una sorta di ‘vicolo cieco’, ha ancora un senso l’attività del giornalista?
Serve ancora il giornalismo in un epoca in cui ognuno con uno smartphone, una connessione alla Rete, può raccontare, spiegare, indicare, mostrare alimentando un flusso di immagini e parole visibili da tutti in una manciata di secondi? Ha ancora un senso quel giornalismo, in cui le persone sembrano credere sempre meno, e che la tradizione anglosassone, amava definire ‘il cane da guardia della democrazia?
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