Media
Bezos, le grandi proprietà dei media globali e l’illibertà di stampa
Bezos ha deciso irritualmente di “schierare” il Washington Post a fianco di Trump, pur dicendo proprio che “non vuole schierarsi per nessuna delle parti”. Ma questo approccio nasconde trappole di “bavaglio alla stampa” che nella sua indipendenza é sempre stata espressione del pensiero critico e profondamente liberale, colonna portante della democrazia americana ? La polarizzazione dell’opinione pubblica e di voto sembra aver contagiato anche la grande stampa (e dunque i suoi azionisti di riferimento che normalmente si occupano del Big Business) con violazioni all’indipendenza del giornalismo e dei giornali che spinge alcuni “Grandi Azionisti” di comando a “schierare” ciò che considerano le “loro truppe”, alla ricerca di allineamenti tra strumenti di lotta politica e di business che ibridandosi distorcono l’uno e l’altro campo. Come é già stato per il “capo globale” della destra mondiale che é Elon Musk (uomo più ricco del pianeta) che con una operazione finanziaria spericolata aveva scalato Twitter per cambiarne i connotati di indipendenza cancellando (incomprensibilmente) addirittura il nome storico in “X” verso una mutazione delle radici politico-culturali (e di business) e soprattutto della sua indipendenza che fu alla base della sua nascita.
Ovviamente di fronte a questi “riposizionamenti radicali” (e controintuitivi) importanti quote dell’utenza/dei lettori e dei giornalisti (come dei collaboratori e di molti investitori) hanno sollevato forti obiezioni tutte orientate a segnalarne la manomissione proprio dell'”indipendenza” che caratterizza la storia culturale del giornalismo di qualità di cui il Washington Post è una colonna portante e non solo dal Watergate in avanti. Una tale “manomissione del metodo giornalistico” da parte degli azionisti di riferimento innervata nella sua indipendenza, che mette dunque a rischio anche redditività ed efficienza di queste complesse macchine mediatiche innestate in un prezioso capitale reputazionale, che è di fiducia e affidabilità scolpita nelle loro radici. Perché dunque questi azionisti di maggioranza mettono a rischio la natura storico-culturale e l’alto valore reputazionale di questi media e le radici fondative del loro mercato di riferimento per ” schierarli” a favore di uno o dell’altro dei due candidati? Riposizionando il WP verso il “probabile o possibile vincitore” più come “auspicio” che come “attesa” ci si deve chiedere se questa è la loro funzione (“salendo esplicitamente sul carro del vincitore che sarà”) invece che di “garanzia di una identità” e dunque della loro storia difendendone il core politico-culturale come fondamento del valore reputazionale di medio-lungo termine?
Facendolo, quasi forzando o rimuovendo la funzione storica di questi media come parte integrante della democrazia dei “checks and balances” salvaguardando il potenziale del “pensiero libero” come critica al potere soprattutto in un momento di fragilità da patologie populiste-nazionaliste e di una emergente “democrazia autoritaria”. Questi “giochi di sponda” a media condizionati dai grandi interessi economici a supporto di una sola parte politica , rinunciando alla funzione liberale di stimolo critico verso gli interessi al potere rappresenta un enorme “conflitto di interesse” che avrebbe come effetto collaterale di “uccidere” la libertà di stampa e una delle colonne della società aperta e libera da una parte e – dall’altra – di distorsione dei meccanismi della concorrenza per ibridazione. Da questo punto di vista uccidendo la democrazia e manomettendo la distinzione tra i poteri perché – rendendoli ibridi con al centro un unico regolatore “assolutista” del potere politico – porterebbe alla formazione delle “democrature”, ossia non tanto di una “democrazia illiberale” – che é definizione contraddittoria in sè – ma ad una “democrazia autoritaria”.
Una democrazia autoritaria derivata da una sottrazione di forza ed efficacia al diritto e dovere di critica che annullerebbe lo spirito di un giornalismo critico fondato sulla libertà di una stampa pluralista e aperta, come direbbe Norberto Bobbio. Peraltro in contrasto non solo con lo Statuto della democrazia americana ma anche con la Costituzione italiana e molte di quelle europee. Infatti, fu Sulzberger editore del giornale concorrente (New York Times) a scrivere un editoriale dove spiegava i pericoli dell’elezione di Trump e che aveva “scosso” il troppo accondiscendente orizzonte analitico del giornalismo americano che peraltro incontrava gli angoli scuri di quel “fare informazione” dislocandosi in un “giornalismo di maniera”. Dunque del tutto evidente ( e ragionevole?) che Bezos “riposizioni” il “suo” giornale a difesa dell’interesse economico e degli equilibri che si formeranno il 6 novembre, come un “bene privato” senza considerarne la natura di “bene pubblico” . Meno evidente e ragionevole che lo faccia avanzando una “idea ingenua” di neutralità dell’informazione come fattore asettico e di “pura tecnica descrittiva” della realtà, da equiparare ad un “packaged good ben vendibile”, lisciata e conforme in una confezione senza curve e priva di spigoli, ossia “deglutibile e digeribile nel mass market”.
Una informazione che però non esiste in natura: livellata nelle differenze, ben limata dalle asprezze, lucidata nei linguaggi, sedativa nei contenuti. Insomma una informazione come “lavoro che pialla le menti e anestetizza il senso di critica”. Alla ricerca insomma di quella “neutralità vuota” che non produce comprensione nella varietà delle prospettive ma nella conformità che annienta la socio-diversità e delle idee quale fonte di creatività di un racconto plurale di una realtà complessa e articolata, che partendo dai fatti possa alimentare un dialogo interpretativo costante e dialetticamente continuo depurato da fake news, da distorsioni ideologiche e da impurità viziate da interessi e lobbismi del marketing politico. Perché nella verità possibile di ricostruzione dei fatti reali come frutto di un “metodo trasparente” possa sorgere una società migliore rendendo il conflitto sostenibile e non distruttivo, in quanto dialogicamente convergente ma senza assimilazioni relativistiche nella confusione delle parti e dei ruoli e perciò capace di suggerire “soluzioni” ai problemi del presente imparando dal passato e guardando al futuro possibile e non solo probabile. Quindi, una informazione come eziologia critica del potere in quanto costruttiva di una opinione pubblica consapevole, partecipata e attiva.
Configurandosi in questo modo come un “quarto potere” ben distinto, autonomo e indipendente da tutti gli altri e in primo luogo dagli stakeholder interni, oltre che da quelli esterni. Non dimenticando mai che la “buona informazione deve saper essere innanzitutto “concretamente formativa” di una opinione pubblica matura e consapevole, possibilmente non conformista. Dunque a Bezos, possiamo dire che gli azionisti di un giornale (grande o piccolo che sia) saranno “eticamente corretti” quando difenderanno l’indipendenza e autonomia di quei corpi osmotici e complessi che sono le redazioni dei giornali e le comunità dei giornalisti nell’equilibrio tra individualità ( del singolo) e coesione (del gruppo) quale fonte generativa di pensiero critico a salvaguardia della continuità e qualità del capitale reputazionale accumulato nel tempo contro i sempre incombenti rischi di “illiberalità di stampa”. Rischi dovuti a forze eterodirette di quegli eco-sistemi che spesso riducono i giornalisti a puri “portavoce del potere” verso la più totale omologazione a specifici gruppi di pressione (interni e/o esterni) esiziali per la libertà fondamentale, quella della parola e dunque della democrazia tout court.
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