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Banana Goat ovvero la Bananalità

15 Dicembre 2019

Ora, che una banana appiccicata con un pezzo di nastro adesivo al muro diventi un meme e si propaghi alla velocità della luce ovunque, mutandosi in capolavoro artistico pure venduto a peso d’oro e forse di più, indica il livello di assurdità ormai raggiunto.

Ovviamente la parodia è dietro l’angolo, a partire dall’opera in sé che sembra diventare parodia di sé stessa nel momento del suo concepimento, non si sa quanto consapevolmente da parte dell’ideatore. Perché qui la cosa più interessante, più dell’opera (se così si può chiamare) di Maurizio Cattelan, che, diciamolo pure, è assolutamente anodina, è proprio l’inondazione parodistica che l’opera ha scatenato soprattutto sul web, il muro dove ognuno appiccica ciò che vuole, proiezione virtuale del muro su cui la banana è stata appiccicata.

Chiamarla provocazione ha poco senso in un mondo come quello contemporaneo che si nutre di continue disillusioni e di iconoclastia e dove la provocazione vera, forse, sarebbe un ritorno riveduto e corretto (o anche scorretto) a una forma che includa anche un contenuto, da tutti i punti di vista.

Non si capisce perché proprio la banana debba essere appesa al muro, e manco con un chiodo, ma col nastro adesivo. Confondere la banana colla virilità è di un banale che manco agli affezionati del bar del Giambellino il concetto dice ancora qualcosa. Quindi se volesse essere la virilità in piena forma appesa al muro e conservata come icona a futura memoria forse siamo fuori strada. Un frutto esotico non a km 0, forse? Ma se manco Greta, che di km 0 se ne intende colle sue abitudini vegane, ha rinunciato alle banane… Neanche. Una cosina alla portata di tutti, una banana da sostituire quando marcisce ed ecco fatta l’opera d’arte a basso costo? In quanto a banalità pensavamo che ormai, dopo l’oceano di fuffa che ci sommerge quotidianamente, ne fossimo debordanti e non se ne sentisse l’urgenza. Già il precedente, A perfect day, 1999 l’opera che consisteva nel gallerista Massimo De Carlo appeso al muro con quintali di nastro adesivo, diciamo che conteneva una forte dose di sadismo (infatti De Carlo finì al pronto soccorso), e fin qui la provocazione in cui si crocifigge il gallerista che diventa lui stesso oggetto d’arte appeso al muro, avrebbe potuto avere pure un senso, anche se per chiamarla opera d’arte, insomma, ce ne vuole. Ma sono passati vent’anni da allora, che in termini di scansione del tempo contemporaneo significa un secolo. E, se proprio volessivassimo, anche quell’opera proprio originale originale unn’era. Il gallerista legato per terra, quella volta, era l’oggetto della performance Don’t Step on Me di Vincent D’Arista (1975), ben quarantaquattro anni fa, quando imperversavano tutte quelle provocazioni e le performance di Marina Abramović… Non se ne pole più.

Anche Aldo Palazzeschi implorava, nel 1910Lasciatemi divertire ma ormai dal divertimento palazzeschiano (e dei futuristi), che comunque aveva un senso ed era veramente divertente, ne è passata di acqua.

Che tu vuoi provocare oggi, colla banana?

Ormai si può provocare solamente la parodia (come anche Marina Abramović riveduta e scorretta da Virginia Raffaele) perché una banana in sé e per sé resta una banana, e una banana non è arte, nemmeno se ad appiccicarla sul muro è Michelangelo. Il quale forse avrebbe rincorso Cattelan in lungo e in largo, visto il caratterino che aveva, e gli avrebbe assestato due sganassoni. Sganassoni d’autore, le cui cicatrici forse il percosso avrebbe dovuto conservare il più possibile (magari rinnovandole periodicamente) facendo di sé stesso un’opera inestimabile di body art: sono cicatrici fatte da Michelangelo, perbacco!

Un’opera “d’arte” che ognuno può appendersi in casa dopo essere stato al mercato, forse. E con dei costi assolutamente irrisori, una banana costerà 20 centesimi, un rotolo di nastro adesivo intorno ai 2 €, ed ecco il muro arredato: Banana d’artista, Comica. Cose già viste, cose già fatte, e poi ognuno può ricamare anche la banana a punto croce e appendersela, con molta più soddisfazione e durevolezza, perché il ricamo non deperisce velocemente come lo squisito frutto che, però, se lo lasci appeso, marcisce e diventa maleodorante. Una marcescenza dell’arte? Ma chi se ne frega, dirà la signora Pina, io preferisco il ricamo a punto croce, e ha pure ragione.

Forse il Pulcino Pio col becco incerottato e poi appiccicato col nastro al muro avrebbe avuto più senso o il CD di Despacito (di cui forse la banana cattelaniana ha raggiunto la popolarità), questo inchiodato e messo in condizioni di non nuocere. Questa, forse, sarebbe stata un’autentica opera d’arte, la ribellione alla violenza della “musica” che ci assedia ovunque, dall’attesa telefonica al supermercato, dalla spiaggia all’aeroporto, alla radio del taxi, al vicino di casa latino che l’ascolta da mane a sera. Ma la banana? E poi: è arte ciò che diventa popolare oppure è un’altra cosa?

Pubblicità di Durex ispirata a Comedian di Maurizio Cattelan

L’epidemia di parodie che Cattelan ha, volutamente o no, scatenato è probabilmente la vera opera d’arte. Perché ha mostrato che la creatività non è morta e d’altro canto che la parodia è forse, oggi, l’unica vera forma d’arte ammissibile, perché è diventato impossibile prendere sul serio qualsiasi cosa non avendo mai la certezza che quella cosa possa essere autentica, vista la manipolazione dell’immagine che oggi è attuabile. Abbiamo veramente la certezza che ciò che ci fanno vedere sia autentico e non manipolato con software sofisticatissimi? Lo vediamo quotidianamente nelle immagini dei vip, siano essi attori, cantanti o politici, dove la rappresentazione dell’immagine è il frutto di filtri, tagli, modificazioni, aggiunte, e ti fanno apparire anche personaggi insignificanti e magari pure ripugnanti in guisa di Greta Garbo o George Clooney. Oppure finti scenari di guerra con finte decapitazioni o finti attentati terroristici con comparse e fumi di sottofondo. O finte piazze piene di gente mentre c’erano quattro gatti. La vera opera d’arte è la mistificazione.

Ma che tu vuoi mistificare attaccando una banana col nastro a un muro bianco? Ormai che tutto è mistificato non ha senso alcuno se non far parlare di sé, e quindi la banana incerottata ha un valore unicamente autoreferenziale (oltre che autocitazionale) e narcisistico. Forse, quindi, le vere opere d’arte sono le parodie di quella banana.

Una delle più divertenti parodie che ho trovato in giro è l’opera dell’artista pratese Gerardo Paoletti, che ha creato una molteplice scatola di montaggio dell’opera intitolata CATTELANDIA Non fermarti alla banana… L’ARTE A CAZZO FAI DA TE .

E qui l’aspetto commerciale dell’opera d’arte è esasperato perché ormai l’arte è considerata quasi un gadget, essendo riproducibile la Gioconda su un magnete da frigorifero o come copertina di un blocco per appunti o una borsetta o un berretto, souvenir du Louvre.

La scatola di montaggio di Paoletti, anche nella versione gadget in inglese per turisti: CATTELAND Don’t stop at banana… FUCKING DOG ART DO IT YOURSELF (ossia: L’arte a cazzo di cane, nella foto in cui campeggia volutamente, sullo sfondo, La fede filosofica di Karl Jaspers), dove è anche esilarante la traduzione pedestre, indice della dozzinalità con cui oggi è trattato tutto e, più che mai, ciò che viene spacciata per arte, risulta così essere più potente dell’originale, anche perché gli oggetti utilizzati, frutti e ortaggi, sono di plastica, quindi assai meno deperibili, anzi duraturi, ciò che vorrebbe, in fondo, l’acquirente di un’opera d’arte.

Anche le madonne di Raffaello erano fatte per durare, alla fine, e infatti si conservano ancora oggi. La banana di Cattelan offre invece l’effimero come cifra stilistica, cosa che forse non interessa più a nessuno: di tutte le suppellettili appese che caratterizzano la sua opera “provocatoria” alla fine resterà ben poco, anche perché certe installazioni sono degli ottimi raccoglitori di polvere, assai più ingombranti delle porcellane della nonna esposte sull’étagère del salotto.

Forse, un’opera d’arte che resta nel tempo avrà da comunicare qualcosa in più. Viene detto, per giustificare il genio di Cattelan: ma non è la banana in sé che conta bensì l’idea. Seh, vabbè. Se l’idea di essere riuscito a ricavarne 120.000 dollari (che poi sarà vero? E chi lo sa in questa giungla d’informazioni dove la verità è indistinguibile) è di certo una proficua idea perché dimostra come anche il valore dei soldi sia cacca – come quella che va a finire nel cesso d’oro dello stesso artista – sia che tu mangi un panino scrauso da un furgone con cucina in pineta a Torre del Lago sia che tu mangi tagliatelle al tartufo con champagne da Cracco. Cacca prodotta anche dalla banana che viene poi mangiata, in un’altra “performance” d’autore, da David Datuna. Non sappiamo se poi gli sia risultata indigesta oppure il pasto sia andato a buon fine. Ma quanto dura st’idea? Qual è il messaggio universale dell’arte o dell’artista, se deve averne uno? Io, nella banana in questione, francamente ne vedo poco se non un’astuzia commerciale facilmente sgamabile basata sull’incultura e/o sull’idiozia del fruitore medio. E, soprattutto, della stoltezza dei critici d’arte che glorificano la spazzatura fino all’empireo. Una specie di vestiti dell’imperatore di Andersen. Forse, se Gertrude Stein avesse assistito al fenomeno mediatico attuale, avrebbe sentenziato: Una banana è una banana è una banana è una banana. A meno che il messaggio di Cattelan non sia l’avvertimento larvato in anteprima di uno spropositato e prossimo aumento dei prezzi delle banane a 120.000 dollari all’etto. Lo scopriremo al mercato dopo le feste. 

Suggerisco la visione del film Velvet Buzzsaw, 2019, di Dan Gilroy. Poi mi raccontate.

P.S. 1 Immagino che arriverà, prima o poi, visto l’argomento, anche una parodia firmata da Rocco Siffredi. Sarà interessante.

P.S. 2 un ringraziamento a Stefano Masi che mi ha suggerito il termine Bananalità.

 

© dicembre 2019 Massimo Crispi

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