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Anche per il Nepal l’Occidente distingue tra morti di serie A e serie B

28 Aprile 2015

Che per qualcuno non tutti i morti abbiano lo stesso valore è cosa nota. Lo abbiamo visto nell’arco di pochi mesi riscontrando il diverso peso riservato da media e istituzioni europee ai 12 morti di Parigi rispetto a quello attribuito a distanza di poche settimane prima alla strage di studenti in Kenya (147 morti) e poi a quella dei migranti nel canale di Sicilia (quasi mille).

La maniera in cui in queste ore viene raccontato il dramma del Nepal conferma lo stesso approccio, riproponendo gli stessi distinguo tra morti occidentali (di serie A) e morti del resto del mondo (di serie B, a voler essere buoni).

Stando alle stime più recenti, il terremoto in Nepal di sabato (7,8 gradi scala Richter) ha causato oltre 4300 morti e circa 8mila feriti, mentre le persone colpite in maniera più o meno diretta dal sisma ammontano a 8 milioni. Ed è probabile che il numero delle vittime sarà aggiornato al rialzo, anche per la mancanza di acqua, cibo e medicine. Alcune ong arrivano a ipotizzare un bilancio finale di oltre 10mila vittime.

Ma a fronte di una tragedia immane e collettiva, i nostri giornali sembrano dare  invece molto più rilievo alla morte dei 4 (quattro) alpinisti italiani impegnati in un trekking sull’Everest, così come ai disagi degli altri alpinisti occidentali presenti nella zona e bloccati ora nel campo base.

C’è chi mette le due cose sullo stesso piano, come Repubblica (“Apocalisse in Nepal: 5mila morti, 4 vittime italiane, 40 irreperibili”) e chi nemmeno ci prova a fingere, dimenticandosi completamente delle altre migliaia di esseri umani morti nelle stesse ore:

“Il terremoto uccide 4 italiani e ne fa sparire altri 40”, titola oggi il Giornale.

“Morti per portare i farmaci”, scrive in prima il Corriere della Sera, riferendosi sempre ai 4 italiani morti.

“I superstiti italiani: così sono morti i nostri amici”, c’è in prima su La Stampa.

“Nepal, il dramma degli italiani”, titola il Messaggero.

“La tragedia degli italiani”, per Il Secolo XIX.

Per fortuna c’è anche chi si accorge del paradosso, e lo denuncia. E’ il caso di Reinold Messner, che interpellato da Repubblica per un commento sul “dramma” dei suoi colleghi alpinisti, dice le cose come stanno:

“La vera tragedia non è sull’Everest, la tragedia si sta vivendo nella valle di Kathmandu e in tutte le altre dove i morti si contano a migliaia. Non possiamo avere un ‘attenzione di serie A per gli alpinisti, che dovrebbero essere in grado di badare a sé stessi, anche se la situazione lassù è molto grave, e una di serie B per la popolazione”.

Un’osservazione ovvia, pure banale sembrerebbe. Ma che in un contesto narrativo del genere appare rivoluzionaria.

@carlomariamiele

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