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A che riga, generalmente, abbandonate la lettura di un giornalista?

23 Febbraio 2015

Se volete dare un dolore di media/alta intensità a un giornalista, fategli sapere di avere interrotto la lettura del suo pezzo intorno a riga venti. Anche riga trenta/trentacinque non cambierebbe di molto. Fino a lì, infatti, si lavora su una generosa apertura di credito nei confronti di chiunque. Riga cinquanta già vorrebbe significare un piccolo accostamento sentimentale, per poi accorgersi che il tipo è di una noia mortale o racconta bubbole spaziali. Essere arrivati a riga ottanta, cioè a un passo dalla vetta, non può che dimostrare in modo incontrovertibile la vostra dabbenaggine, avendo prodotto il massimo sforzo per arrivare sino a lì e poi abbandonare il tappone dolomitico per manifesta inferiorità. Chiaramente nella vita si approfitteranno di voi (e non solo i giornalisti). Ma in fondo, nel testa a testa lettore-giornalista, si riproducono quei meccanismi che animano anche le schermaglie amorose, con relative passioncelle e delusioni. Non parliamo qui di grandi amori, perché quelli sono per sempre e dunque rarissimi.

Mi è venuto in mente di scherzare un po’ su di noi, ma poi neanche tanto, quando ho letto un pezzo piuttosto divertente di Gabriele Romagnoli su Repubblica dal titolo: «Dalla Tartt a Larsson quanti libri lasciati a metà», in cui – finalmente! – si disvela il secolare arcano: quanti libri che compriamo leggiamo sino in fondo? Questa memorabile classifica, sino a qualche anno fa impensabile per mancanza di materia prima – e chi si metteva casa per casa, lettore per lettore, a chiedere: lei a che pagina ha mollato Susanna Tamaro? – oggi, grazie alla tecnologia è possibile. L’avvento dell’ebook, infatti, ha spostato più in qua l’onere della prova, tanto che Kobo, rivale di Kindle, è andato a spulciare la traccia elettronica dello sfoglio di ogni lettore.

Vi prego, non gridate inopinatamente alla violazione della privacy (lo avete già fatto?). Romagnoli ci dice, per esempio, che il famoso Cardellino di Donna Tartt è stato mollato da metà dei suoi compratori, ma era anche una botta da 800 pagine, mentre vanno via come il pane i romanzi rosa che sono i più sciroppati dai lettori sino alla straziante pagina finale. Poi, sempre il Romagnoli, si lascia andare a qualche confidenza personale, dove rivela cha ucciso non nella culla, ma a pagina 200, gli «Uomini che odiano le donne» del mitico Larsson, o al contrario che ha resistito per le prime cinquanta, mefitiche, pagine di «Preghiera per un amico» di John Irving, per poi scoprire un capolavoro che gli ha cambiato l’esistenza. Ecco, leggere è anche fatica. Che alle volte può essere premiata.

Ma qui tocca tornare a noi (giornalisti). Noi che al massimo, quando si butta giù un pezzo, non andiamo oltre le tre pagine di un libro. Quindi, in linea di principio digeribilissimi. Questo almeno crede la maggior parte di noi, che in realtà non ha mai visto – fisicamente – lo straccio di un «suo» lettore. Lo scrittore sì invece, lo scrittore girando per la città può incrociare il suo lettore – è lui è lui!!!! si tiene in gola un grido strozzato – lo vede con il suo libro e quello non può essere che un «suo» lettore o addirittura un suo lettore che sta per regalare il capolavoro a quello che potrebbe diventare un suo, ulteriore, lettore. Lo scrittore ha quindi un riscontro diretto, magari un filo più credibile delle classifiche drogate. Ma comunque. Il giornalista invece è il classico sfigato che crede di intercettare in ogni umano che ha in mano il suo giornale un suo lettore. Ah ah che illuso. Quindi fa un calcolo matematico completamente farlocco, credendo che quella moltiplicazione sia ciò il Paese pensa di lui, l’Indispensabile.

Invece è proprio lo strumento a uccidere il giornalista. Quel giornale che il giorno dopo è buono per incartare il pesce, il giorno stesso non è detto che profumi del suo pezzo. La velocità con cui si affronta ormai un quotidiano comprende anche un tot di distrazione di massa, per cui nessuno (o quasi) si porta più il giornale a casa dove, sprofondato in poltrona e con le pantofole ai piedi, illuminati da una luce fioca, il bravo padre di famiglia leggerà nel silenzio della casa l’ultima, imperdibile, intervista, di Aldo Cazzullo.
E fin qui i giornalisti di “carta”. Figuriamoci noi che ci siamo messi in testa di farci leggere su internet, mezzo dispersivo per eccellenza. Qui valgono addirittura i tempi di lettura, quanti secondi o quanti minuti la generosità di un viandante internettiano ci vuole regalare. Ma mettiamo il caso che in una botta di sonno post-prandiale, uno si addormenti con il computer acceso sul pezzo, allora cosa risulterà: un Pulitzer?

 

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