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Sul Trono di Spade si è seduta la fretta
Ci siamo. Game of Thrones è finito. Presto. Malauguratamente presto.
E non è l’astinenza che parla (si, vabbè, anche quella). Ma la sensazione, difficile da addomesticare e condivisa in lungo e in largo, di un eccesso di fretta nel chiudere i battenti. Di scene perdute che avrebbero potuto dare maggiore coesione alle varie storie. Di un minutaggio inidoneo ai potenziali sviluppi e ostile a una ritmica narrativa, autentico marchio di fabbrica dell’intero lavoro, che tanto avevamo apprezzato.
Una ritmica, per inciso, non gratuita. Perché funzionale alla qualità di un racconto polifonico, dall’ampio respiro, in grado di catturarci sin da subito. Consentendoci di archiviare, senza che ce ne accorgessimo, chilate di scetticismo sull’argomento “fantasy” sedimentate negli anni: uno scettico che non dubita, in primis, del proprio scetticismo è un dogmatico in borghese, ci dicemmo. Non senza patemi e con lo spettro di eventuali draghitudini a darci il tormento.
Invece, stupore.
In libera uscita dall’approccio snob, ci ritrovammo al cospetto di una tessitura epica punteggiata di personaggi in evidente controtendenza rispetto alle semplificazioni archetipiche peculiari di certe narrazioni analoghe.
Psicologicamente dinamici, chiaroscurali, multidimensionali, caratterizzati alla perfezione. Un realismo inclemente, seduttivo. Idem sentire per il contesto. Delineato con accuratezza, da sprofondarci.
Dopodiché: dilemmi morali, machiavellerie di ogni sorta, intrecci coinvolgenti e colpi di scena costruiti con sapienza; la componente “fantasy” ben dosata, con il suo bagaglio di materiale mitico a non infastidire, anzi; il susseguirsi delle conferme sull’ottimo impiego del nostro tempo.
In sostanza, una scrittura di livello, autoriale. Diverse spanne al di sopra del mero intrattenimento.
Premesse che, probabilmente, avrebbero meritato un epilogo diverso. E che, una volta disattese dall’ultima sceneggiatura firmata Bienoff e Weiss, hanno scatenato un prevedibile surplus di critiche rivelatosi fatale, a detta di alcuni critici dei critici, in un’ottica di corretta ricezione delle sorti di Westeros, con la predisposizione collettiva irrimediabilmente avvelenata: in effetti, come trascurare la proliferazione, dopo la battaglia di Grande Inverno, di generali esperti, di teorie insoddisfatte che gridavano vendetta accampando una legittimità tutta da dimostrare, di fanatici vivisezionatori di ogni singolo frame alla ricerca del dettaglio non credibile, ecc.
Dal diritto di critica al dovere di critica ce ne passa, aggiungerebbero i suddetti critici dei critici. Essendo il secondo, in questi tempi acritici, troppo simile alla mania di protagonismo. Capire, emozionarsi e poi criticare, ammonirebbero.
Anche Kit Harington non le ha mandate a dire ai detrattori: “Penso che qualsiasi cosa le persone pensino di questa stagione – e non voglio suonare cattivo nei confronti dei critici – ma qualsiasi critico che spenda mezz’ora a scrivere di questa stagione esprimendo il suo giudizio negativo, nella mia mente può andare a farsi fottere. So quanto impegno ci hanno messo per la stagione. So quante persone se ne sono curate. So quanta pressione la gente ha subito e so quante notti insonni hanno avuto”. Scontata la replica dei critici-criticati-che-hanno-accettato-malvolentieri-le-critiche: “Tu non sai niente, Jon Snow!”.
Ciononostante, pur non simpatizzando istintivamente per la gogna crossmediale, nel metter mano all’onestà facciamo davvero fatica a salvare quest’ultima stagione. Vittima di un’avventatezza, di una trama in extrabeat, che tutto ha sacrificato sull’altare della spettacolarità, sconquassando archi narrativi, introducendo il teletrasporto, ricorrendo a plot twist precipitosi ed esagerando col plot armor, espediente solitamente abusato in sede di scrittura poco ispirata (ricordate le gesta eroiche sul campo di battaglia di Sam l’Invincibile?).
Pensiamo a Jaime. Alla sua impazienza di tornare da Cersei dopo aver scoperto che la stessa ne aveva appena commissionato l’omicidio. Alle sue ultime parole, complici, rivolte alla gemella: “Tanto a noi non è mai importato nulla del popolino”. A Jaime, lo Sterminatore di Re, colui che aveva sfanculato il suo onore per salvare il popolo dal Re Folle, non importa nulla del popolino?
Oppure pensiamo a Varys, da previdente maestro dei sussurri con dottorato di ricerca in arcana imperii a sprovveduto maestro dei megafoni, morto peraltro invano. E Jon Snow? Il personaggio dotato dell’arma segreta dei tibetani, “il pugnale che uccide l’io”, l’erede morale di Ned Stark, che improvvisamente si svuota, si infrollisce, perde ogni residuo di lucidità, di risolutezza, in nome di un amore privo di climax, mai messo a fuoco, mai dettagliato (persino la sua atroce scelta finale sembra tutta opera dell’ars persuadendi di Tyrion).
In fine, la fumantina Daenerys, bersaglio di un detournement privo di gradualità, di una direzione narrativa, anche coraggiosa, di cui c’erano le premesse ma a cui è mancata una congrua fermentazione: eravamo a metà dell’alfabeto, e passare, col turbo, dalla g alla z senza attraversare le lettere intermedie, è stato un rischio che ha tolto una quota significativa di credibilità alla metamorfosi.
Ok l’accumularsi dei traumi e dei lutti, il montare del delirio paranoico, il profetico motto dei Targaryen, il detto della moneta, il “dracarys” ormai facile e la perdita di consistenza della propria rivendicazione, ma una strage gratuita di civili inermi arresisi ci è sembrata comunque eccessiva per la “Distruttrice di catene”, non ancora pronta per diventare suo padre, ucciso in un idealismo precedente. Insomma, tanto per cambiare, un timing inadeguato.
Gli sceneggiatori avrebbero dovuto rispondere “non oggi” al Dio della fretta. Se l’avessero fatto, magari, anziché regalarci un finale con l’incoronamento di Bran “Lo Spezzato”, profeta che ha saputo dare una grossa mano alle sue profezie seguendo il metodo del larvatus prodeo, privo di qualsiasi esperienza governativa e di umanità (essendo diventato il Corvo a tre occhi), avrebbero potuto dare una costruzione drammatica più solida alla morte di Daenerys, in teoria scena madre dell’intera serie: lo stesso Isaac Hampstead-Wright (Brandon Stark) ha creduto che il destino riservato al suo personaggio fosse uno scherzo degli showrunner.
Ma niente da fare. Siamo passati dalla tragica dipartita di una delle protagoniste indiscusse al cazzeggio da bar sul nuovo ordine mondiale tramite uno stacco di montaggio. Con un Tyrion, prigioniero di Verme Grigio e della linea comica degli “Occhi del cuore”, a dettar legge. E un quantitativo enorme di pathos e di reazioni per l’accaduto a decantare off-screen.
Da amanti della serie, potevamo davvero far finta di nulla?
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