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Roberto Saviano, The Post Internazionale e la solita Italia dei “figli di”
Non è il caso di tornare sul fatto che i ragazzi che scrivono sul The Post Internazionale hanno tutti cognomi come Gambino (come il primo caporedattore e fondatore de l’Espresso), Mentana, Lerner, ecc., che questa testata online sia stata presentata da Eugenio Scalfari in persona e che abbia una partnership con il gruppo Espresso/Repubblica e in particolare con Limes.
Non è il caso nemmeno di tornare sul fatto che quello strano nome ha con tutta probabilità una freddissima ragione SEO, che consente a chi cerca Il Post o l’Internazionale su Google di trovare anche The Post Internazionale (o “il The Post Internazionale”, oppure “il Post Internazionale”, non è chiaro come bisogna chiamarlo).
E nemmeno di come, nonostante i toni usati nella presentazione, il lavoro fatto in quella sede mi sembra che sia, in larga parte, né più né meno quello che si fa su decine e decine di siti internet: si utilizzano articoli apparsi altrove, si assemblano, traducono, rimasticano e rilanciano. Lasciamo perdere tutti questi aspetti, per la semplice ragione che ne ha appena scritto Matteo Bordone sul suo blog e qualche tempo fa ne aveva parlato anche il blog VMC+.
Però vale forse la pena di soffermarsi un po’ di più su una nuova prestigiosissima collaborazione che TPI (ecco, così è più semplice) ha messo in piedi da qualche settimana: quella con Roberto Saviano.
Una brevissima premessa: nonostante anche in Italia stiano approdando siti che seguono modelli di business alternativi, da sempre l’aspetto più importante per ogni testata internet è rappresentato dal numero delle visualizzazioni. Visualizzazioni che, fondamentalmente, arrivano grazie a due vettori: il traffico delle ricerche su Google e il traffico dai social network.
E così, arriviamo subito all’importante collaborazione che TPI ha stretto con Saviano e che l’autore di Gomorra spiega in poche righe: “Ho incontrato Giulio Gambino, direttore di TPI, quando studiava alla scuola di giornalismo della Columbia. (…) Oggi TPI registra 1.5 milioni di utenti unici al mese e 18 milioni di pagine visualizzate ogni mese. Sui social è molto seguito e questo dimostra che esiste un pubblico attento al racconto internazionale competente. (…) Mi piace il lavoro che fa TPI, ecco perché condividerò sempre più spesso attraverso i miei spazi sul web il loro lavoro. Mi piace dare visibilità alla passione di giovani giornalisti che credono in quello che fanno”.
La collaborazione di Saviano, quindi, consiste nel fatto che ogni tanto prende un articolo del TPI e lo rilancia sulla sua pagina Facebook. Che ha più di due milioni di like e che quindi porterà sicuramente una marea di visualizzazioni aggiuntive. Il tutto, per “dare visibilità alla passione di giovani giornalisti che credono in quello che fanno”.
Il punto è soltanto uno: ma tra tutti i giovani giornalisti pieni di passione e che credono in quello che fanno, bisognava scegliere proprio quelli più privilegiati, figli d’arte che hanno studiato in giro per il mondo e che vivono a Londra o New York? Perché se il concetto è quello di aiutare la categoria dei giovani giornalisti precari e con guadagni da fame credo che ci sia qualche migliaio di freelance là fuori che avrebbe maggiormente bisogno del supporto di Roberto Saviano.
E poi, sarà proprio un caso che tra le centinaia di siti internet più o meno professionali, più o meno dotati di risorse economiche, Saviano abbia scelto di condividere gli articoli proprio del sito diretto dal nipote del fondatore de l’Espresso e che è stato presentato dal fondatore di Repubblica, entrambe testate con cui Saviano collabora regolarmente?
Se anche gli intellettuali della nuova generazione e i giornalisti della nuovissima iniziano a lavorare seguendo le solite logiche delle parentele e delle amicizie direi che non c’è proprio nessuna speranza che in questo paese prenda piede un po’ di meritocrazia.
Chiudo questo post ad alto tasso di frustrazione ponendo una semplice questione: ma siamo sicuri che rilanciare pezzi altrui dalla propria pagina Facebook possa andare alla voce “collaborazione”? Non è che, forse forse, sarebbe il caso di parlare di pura e semplice promozione?
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