Internet

Meta di non ritorno: quando la verifica dal basso è un fallimento annunciato

7 Gennaio 2025

In un video datato 7 gennaio, Mark Zuckerberg, fondatore di Meta – che al suo interno contiene Facebook, Instagram, Threads e WhatsApp – ha annunciato la fine del programma di fact-checking indipendente negli Stati Uniti, descrivendo l’iniziativa come un passo verso “più discorso e meno errori”. È facile immaginare che l’Europa seguirà a breve. Al suo posto, Meta adotterà il modello delle Community Notes, già implementato da Elon Musk su X (ex Twitter), che affida agli utenti il compito di correggere post potenzialmente falsi, inesatti o manipolati. Guardando all’esperienza di X, avviata nel 2021 con il nome di Birdwatch e poi rinominata Community Notes l’anno seguente, emerge un disastro annunciato. Il sistema di moderazione dal basso basato sul “crowdsourcing” si è rivelato inefficace: pochi contributi, spesso contraddittori, polarizzati e scarsamente visualizzati.

L’aspetto più problematico di questo cambio di direzione è che deresponsabilizza le piattaforme, le quali continuano a veicolare, ampliare e monetizzare contenuti inattendibili a proprio vantaggio (nel 2022 Facebook ha investito solo il 5% del suo fatturato in moderazione). Ancora una volta, si scarica sull’utente il compito non remunerato né dovuto di “igienizzare” gli spazi online. È come se un produttore di automobili si rifiutasse di installare cinture di sicurezza ed airbag, incolpando poi gli autisti per non essersi arrangiati con bretelle e palloncini. Questo approccio ha conseguenze concrete e pericolose, soprattutto in ambiti delicati come la salute. Post che promuovo l’ingestione di candeggina per curare l’autismo o pillole miracolose per invertire una interruzione di gravidanza rimarrebbero sostanzialmente incontestati.

Secondo Zuckerberg, negli ultimi anni ci sono stati “diffusi dibattiti sui potenziali danni derivanti dai contenuti online” mentre “i governi e i media tradizionali hanno spinto per censurare sempre più” con azioni “chiaramente di stampo politico”. Tuttavia, il problema di fondo di un sistema complesso di moderazione risiede nel numero sottodimensionato di operatori assunti per la verifica dei contenuti, specie per lingue meno diffuse. Oppure ci si potrebbe interrogare sulla necessità di sanare quelle discriminazioni che poi si riflettono negli algoritmi poiché ad allenarli sono sempre i soliti “tech bros” caucasici sfornati dalle università Ivy League.

Questo presunto eccesso di zelo nella moderazione, che non trova riscontro nell’esperienza di chi studia il settore, è stato usato come giustificazione per smantellare il programma di fact-checking indipendente che, lanciato nel 2016, si affida agli esperti terzi affiliati all’International Fact-Checking Network (IFCN), il cui codice di condotta impone ai firmatari (Pagella Politica, Facta e Open.online da noi) imparzialità e trasparenza in ogni aspetto del proprio operato. L’accusa di essere politicamente schierati risulta infondata: in Italia, ad esempio, il Partito Democratico è stato soggetto al maggior numero di fact-checking di Pagella Politica del 2024.

Fare fact-checking è un lavoro ingrato: sottopagato, esposto a trauma vicario e spesso accolto con scetticismo anche dai colleghi giornalisti, ma fondamentale per combattere il disordine informativo. Con la decisione di Meta, si rischia di compromettere la sopravvivenza di un settore già in crisi, spesso dipendente dal supporto finanziario delle stesse piattaforme.

Il  “ritorno alle radici di libera espressione” su Facebook e Instagram si concentra sul mantra di ridurre gli errori e semplificare le politiche, prendendo di mira coloro che si sono autoproclamati “arbitri della verità”. Secondo questa argomentazione, molto diffusa tra i detrattori delle pratiche di contrasto alla disinformazione, gli operatori dell’informazione deciderebbero deliberatamente cosa sia vero o falso, sostenendo che “fatti alternativi” possano coesistere in uno scenario di totale relativismo della realtà. Eppure, per rispondere, basterebbe citare la celebre frase di Daniel Patrick Moyniha: “hai diritto alla tua opinione, ma non ai tuoi fatti”. Solo i fatti possono essere smentiti: ad esempio, che il massacro di Bucha sia avvenuto è dimostrato da immagini autentiche, testimonianze dei sopravvissuti e altri dati di intelligence. Questo lo rende verificabile, a differenza delle opinioni di alcuni secondo cui la Russia avrebbe attaccato l’Ucraina per reagire a un ipotetico allargamento della NATO. Si può essere d’accordo o contrari, ma resta comunque una semplice speculazione, estranea al lavoro dei fact-checker.

In una invettiva “anti-wokism” che taccia l’oppresso di oppressione, Zuckerberg ha annunciato la decisione di “sbarazzarsi di un gruppo di tematiche come immigrazione e questioni di genere”, spalancando di fatto la porta – mai davvero chiusa – a contenuti illegali come il discorso d’odio o incitamento alla violenza. In società già segnate da xenofobia e misoginia, questo approccio riduce ulteriormente le tutele per le categorie vulnerabili, legittimandone la persecuzione. Non a caso, il Presidente del parlamento georgiano, Shalva Papuashvili, ha applaudito la decisione con un post su X, sfruttando l’occasione per screditare le due organizzazioni di fact-checking affiliate a Meta, attive in un Paese ormai governato dall’estrema destra e dove la libertà di stampa è in grave pericolo.

Infine, Meta ha invertito la precedente decisione di vietare contenuti sponsorizzati di natura politica su Facebook, Instagram e Threads. Nel frattempo, il team di Trust and Safety – che si occupa della moderazione dei contenuti della piattaforma – sarà trasferito dalla democratica e progressista California al repubblicano e conservatore Texas. Riaffermando la collaborazione con Trump e richiamandosi alle forti garanzie offerte dalla Costituzione americana sulla libertà di espressione, l’impresa di Menlo Park presenta gli Stati Uniti come la vera “land of the free”, in netto contrasto con un’Europa descritta come oppressa da un “crescente numero di leggi che istituzionalizzano la censura” e frenano l’innovazione. È palese il riferimento al Digital Services Act, che regolamenta i servizi digitali nell’UE. Insomma, saremo i prossimi.

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.