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La copertura morale di Facebook? La solita «nobile» figura del giornalista
Facebook cerca giornalisti. Obiettivo: le patacche sul web che corrono alla velocità della luce e potrebbero sfuggire anche a una lince del pensiero come il vecchio Zuckerberg. Fin qui, è ciò che si diceva in giro in questi tempi di fake news. Poi, incontri per caso un’amica giornalista che vive a New York e ha lavorato per molti anni da Bloomberg, la quale passa da Roma per salutare parenti e amici e ti conferma tutto: ho una trattativa aperta con Facebook, stanno facendo la squadrone che andrà all’attacco di tutte le grandi balle del web.
Sta succedendo, ammetterete, una cosa molto strana. Un mestiere considerato morto, steso senz’anima né respiro sul tavolaccio della morgue, com’è il giornalismo, che viene rianimato bocca a bocca da una serie di soggetti-azienda che non possono badare completamente a se stessi, soprattutto sul piano maledettamente scivoloso dell’etica, e che hanno bisogno di una copertura, diciamo così, dal nobile lignaggio. Il giornalismo, appunto, o ciò che ne resta.
Per gli altri – aziende, comunicatori, politici, ecc – il giornalismo è (ancora e nonostante tutto) una nobile copertura. È una copertina di Linus che ti stendi sulle gambe nelle sere d’inverno, che dà tepore, che infonde sicurezza, che permette una via d’uscita onorevole. Perché le aziende si riempiono di giornalisti se il mestiere è acclaratamente una merda? Perché i principi ispiratori che lo fecero nascere, la sacra carta di tutte le schiene più o meno dritte, hanno ancora un grande valore simbolico. Ed è soprattutto sui simboli, sui valori, che si vendono i prodotti aziendali. Non importa se entrandoci, in quel mestiere, dovresti rapidamente certificarne l’agonia, basta evocarne la storia, i suoi uomini migliori che naturalmente non ci sono più, per vendersi all’esterno.
Abbiamo già detto di quei teneroni dell’Eni che tentano addirittura un carpiato di notevolissima difficoltà, trasformare se stessi in giornalisti-verità, attribuendosi il doppio ruolo di azienda e di editore buono, lindo e pinto rispetto a tutte le balle spaziali che girano in Rete. Lo certificano ormai senza più vergogna, organizzando eventi in cui la controparte (la loro controparte!) sarebbero le marchette. Se non fosse che l’operazione ha una sua deprimente fragilità, ci sarebbe da risvegliare un qualche ordine professionale dell’una e dell’altra parte.
Qui invece, dalle parti di Zuckerberg, si sta facendo mercato con un po’ meno ambiguità. Il ragazzo, evidentemente, attribuisce alla categoria giornalistica un sentimento che manca ai suoi dirigenti o per lo meno che non ne è esattamente un tratto distintivo: la sensibilità. Se un algoritmo creato in laboratorio va a pescare i pixel di pelle nuda ed ti espelle dalla condivisione il nudo di Courbet, facendosi ridere dietro da mezzo mondo, c’è ancora uno spazio per riconoscere a un mestiere “altro” la capacità di valutare meglio e con più cura e anche con più destrezza la fattura maligna di una notizia che sta facendo rapidamente il giro del mondo attraverso i social e che dovrebbe rivelarsi, alla fine, come autentica bubbola spaziale. Questa valutazione, dice Zuc, la dovrà fare il gruppo di giornalisti creato alla bisogna. Il primo problema è la selezione della specie, perché catturatori di notizie vere ce n’è già molto pochi in giro, figuriamoci di fake. Per un giornalista così e così, le notizie vere o quelle fasulle sono esattamente la stessa cosa. Il secondo problema è attribuirsi, attraverso la categoria giornalistica, una sorta di lasciapassare morale. Qui c’è la nota dolente: Zuc rifiuta l’idea di considerarsi editore, e dunque di prendersi la responsabilità di indirizzi, scelte, visioni, ma poi proprio attraverso i soldati della categoria rilancia la terra promessa della Verità socialmente condivisa. Nel momento in cui, quotidianamente, si compiranno le scelte sulle notizie buone o cattive che compaiono in Rete, il creatore di Facebook farà il “suo” personalissimo giornale e verrà giudicato per l’editore che sarà diventato.
La questione finale, poi, è il paradosso della storia. Nel momento in cui il mestiere, il nostro mestiere, è autorevolmente fuori gioco per manifesta inferiorità e non è questa la sede per valutare le responsabilità di un crollo di considerazione, il giornalismo è disperatamente cercato come «nobile copertura». Gli altri, evidentemente, non stanno molto meglio di noi e valutando i sacri principi che ispirarono i mestieri alla loro nascita, quelli giornalistici rappresentano ancora un valore, un plus, rispetto a quelli aziendali. Non proprio un gran risultato per le aziende (e magari anche basta con l’evocazione perenne di Adriano Olivetti), ma neppure un gran risultato per noi che, in fondo, veniamo sfruttati e considerati per meriti pregressi, lontani nel tempo e ormai dimenticati, per valori antichi che non abbiamo saputo conservare.
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