Internet
Italia, 2019: il giornalismo online non conta assolutamente nulla
Il giornalismo italiano su internet non conta nulla. Non ha peso, non è autorevole, non incute timore al potere e dal potere non è considerato. Il giornalismo italiano su internet soprattutto non scopre mai nulla. Semplicemente, registra. È un mero certificatore burocratico. Il giornalismo italiano su internet è concepito per registrare l’esistente, diffondere quel che già c’è, senza mai alzare lo sguardo dalla tastiera. È un fenomeno tutto italiano, all’estero il giornalismo online ha il peso che una volta aveva la carta, scopre, disvela, produce. Fa persino dimettere i “cattivi”. Essendo il mezzo tecnico uguale per tutti, è evidente che il motivo di un tale dislivello sta nelle persone, nella mentalità, nel racconto di un Paese, nella nostra considerazione della politica.
Il giornalismo online si divide sostanzialmente in due parti: da una parte le testate che fanno capo a grandi gruppi editoriali, economicamente più protette, dall’altra piccole/medie realtà che hanno molti meno soldi, strumenti più limitati, forze più limitate. Queste ultime dovrebbero sopperire con una certa aggressività giornalistica, che non significa approssimazione o sciatteria, ma solo una tensione più forte, più motivata, più continua. Alla fine, però, tra i giornali dei grandi gruppi e le realtà apparentemente più dinamiche, queste grandi differenze non si notano, sul tutto si stende una melassa indistinta che tende a spegnere gli (eventuali) ardori del lettore. Che non a caso, il giornale ideale se lo costruisce in casa sulla sua pagina Facebook, dove registra umori personali, politici, sociali. Dove alza i toni, si indigna, urla, strepita, si incazza a uso e consumo del piccolo popolo che è riuscito, come il pifferaio magico, ad attrarre a sé giorno dopo giorno, e che costituisce il suo tesoretto di “credibilità” personale. Il giornalismo online gli serve unicamente per attingere nello stagno generalista della conoscenza e a sua volta rilanciare la “sua” di conoscenza, magari indicando alla comunità adorante l’impellente necessità di un certo pezzo: “Da leggere”, “Imperdibile”, “Assolutamente consigliato” e via così. A loro volta, gli adepti ringrazieranno il capo-setta di tanta generosità.
Perché in Italia il giornalismo via internet ha il peso di una piuma? Innanzitutto perché manca di “celebrazione”, anche semplicemente estetica. Graficamente, è un corpaccione che cambia pochissimo, un morto che cammina sulla Rete. Certo, ci sono i momenti in cui si può prendere la scossa perché arriva la notizia, questione di minuti e poi tutto ritorna come prima. Parlando di carta, solo per un momento: il tentativo di Verdelli con Repubblica è chiaramente quello di dare la scossa sulla “prima”, è una vibrazione estetica prima ancora che di contenuti. Nel corpo dei titoli, nelle foto, nei calembour che alle volte fanno cagare, alle volte no. Ma certo, si avverte almeno il tentativo di risvegliare il lettore dal suo letargo secolare. Alla Rete questo tentativo non interessa, credendo ingenuamente che il lettore sia perennemente elettrizzato per il solo fatto di stare al computer o di maneggiare un device. Una sopravvalutazione del mezzo, una sopravvalutazione del lettore.
Sin qui l’estetica. Ma poi, approfondendo un po’ i contenuti, rimane come l’impressione che le persone che lavorano nei giornali online siano persone tristi, perché il prodotto è decisamente triste. Che cosa vuol dire un prodotto giornalisticamente triste? È un prodotto pulito, ordinato, alle volte anche scritto diligentemente. Ma senza cuore, senza mai l’idea di scartare da un’ineluttabile condizione piccolo borghese che è la maledizione di un paese statico e malsano come l’Italia. In quei pezzi manca l’aria, nessuno apre mai la finestra, a nessuno si scompigliano i capelli per un’improvvisa folata di vento. Ricordano il verso di una canzone meravigliosa di Èdith Piaf, portata al successo da Herbert Pagani nella versione italiana dal titolo ”Albergo a ore”: «Puliti, educati, sembravano finti, sembravano proprio due santi dipinti». Sono i nostri giornali online.
Prendiamo il Migliore. Tutti quelli perbene dicono così, parlando del Post, la creatura di Luca Sofri. Dicono che è il prodotto migliore. Ma chiedo: il Post è un prodotto giornalistico o post-giornalistico? Temo che sia questa seconda. Un prodotto che nella sua evoluzione ha dato per fatto, visto, cantato e celebrato il giornalismo, per cui si è deciso che fosse del tutto inutile continuare nell’impresa. Qualche interpretazione maliziosa – noi ci annoveriamo tra i maliziosi – racconterebbe di un’operazione sin troppo scoperta dei nostri eroi, consapevoli a tal punto che il confronto giornalistico sarebbe stato così impietoso che si è passati direttamente alla fase 2, eliminandolo dalle opzioni. E ci si è inventati quella formuletta paracula anzichenò che fa calare dall’alto un sapere ulteriore, in modo da esserne gli esclusivi depositari. Per cui, se si parla di melanzane alla parmigiana, farne un dotto approfondimento dal titolo: «Le melanzane alla parmigiana spiegate bene». Ma come spiegata bene, non ce l’avevano già abbondantemente spiegate bene gli altri giornali? Per tenere agganciata l’indomita comunità extragiornalistica, Sofri si sottopone a un duro lavoro social, soprattutto su Twitter, terra onanista in purezza, dove scatena decine di ardimentosi commentatori con argomenti del tipo: «La verità è che il 99% delle “battaglie contro il politically correct” sono e sono state battaglie contro “qualcuno che mi sta sulle palle”, e sono divenute utili idioti di chi se ne è approfittato per costruirci politiche di consenso».
Alla fine, esaminati estetica e contenuti, resta il punto che consideriamo dirimente: il rapporto con il Potere. Perché alle creature giornalistiche internettiane il Potere sembra non interessare? Un primo aspetto potrebbe essere quello della difficoltà di confrontarsi con il medesimo. Un piccolo esempio, solo apparentemente banale, forse spiega l’evoluzione dei tempi e il rovesciamento dei rapporti di forza, a nostro sfavore ovviamente. Un tempo – mettiamo quello berlusconiano 25 anni fa – si poteva fare un’intervista, che fosse de visu o telefonica, senza che il politico potesse avanzare la pretesa di “revisionarla” prima della pubblicazione, pena, appunto, un sincero vaffanculo de visu o telefonico. Ora, una qualsiasi quinta fila Cinquestelle, un mezzo leghista delle valli, insomma il primo signor nessuno che passa di lì vuole riguardare l’intervista, e naturalmente te lo anticipa il suo inutile ufficio stampa come condizione necessaria per procedere. Il giornalista accetta subito, non vuole problemi, perché altrimenti i problemi li fa il suo stesso giornale che naturalmente sta dalla parte del politico. Insomma, è una questione di perdita di autorevolezza.
Il secondo aspetto è il peso che vogliamo attribuire all’online. Noterete che non ci sono corsivi, editoriali, prese di posizione, se non quelli mutuati dalla carta. Nello scorrere della giornata, nessuno prende mai posizione. Per quale motivo? Il primo è indubbiamente di praticità intellettuale: il lettore online lo si considera dal gusto veloce, immediato, non troppo fermo sulle questioni. Lo si può mai incupire con un editoriale, un corsivo, insomma con un mezzo pippone dal sapore morale? Sotto, però, c’è un’altra questione, ben più profonda. I grandi gruppi editoriali non considerano internet come un mezzo universale, in grado cioè di selezionare tutti i sentimenti del buon giornalismo, compreso ovviamente una presa di posizione specifica per quel mezzo. Semmai, per intervenire aspettano il giorno dopo, quando esce la carta. È un autentico paradosso, si considera la carta moribonda, e lo è, ma per le grandi questioni internet non è valutato come un luogo importante, eletto, ma subalterno.
Una terza questione, forse la più importante, ha molto a che fare con il sentimento del «desiderio». C’è ancora il desiderio di scoprire cosa (ci) nasconde il potere, c’è ancora quella necessità etica che animava organizzazioni giornalistiche che hanno fatto la storia di questo mestiere, c’è, più semplicemente, il divertimento folle, che dà sempre una gran soddisfazione, di rompere i coglioni a quelli potenti, di farli innervosire, di capire certi meccanismi che poi governano le nostre vite, le vite di noi cittadini, quindi una cosa non poi così banale? È una domanda che probabilmente oggi non ha una risposta definita o non ha una sola risposta. Andrebbe interpellata, sull’argomento, la borghesia che in un tempo migliore di questo sostenne, convinta, le buone ragioni del giornalismo, considerandolo il grimaldello più efficace, ed eticamente più credibile, per vivere con soddisfazione il doppio registro dell’editore illuminato, che aveva a cuore le libertà di un Paese, e dell’imprenditore di successo che poteva girare i migliori salotti del Paese con il fiore all’occhiello di una “controrivoluzione” dall’alto.
Ps. Chi scrive ha vissuto di una cosa ma anche dell’altra. Tanta carta, perché non c’era altro, ma poi diversi anni qui dentro, nel meraviglioso mondo di internet. Siamo stati, e bene, a Linkiesta, dove ci siamo anche molto divertiti, arrivando all’apoteosi che, per noi maledetti, voleva dire fare incazzare i lettori, i nostri, e gli editori, sempre i nostri, nell’idea meravigliosa che per essere liberi non si doveva lisciare il pelo neanche a quelli di casa. Così, a naso, ci sembrava che questa libertà fosse molto apprezzata dal mercato, ma poi un bel giorno i padroni, che per un po’ hanno frequentato salotti vantandosi di quei manigoldi, ci hanno gentilmente messi alla porta. Tutto questo per dire – sia chiaro – che anche Linkiesta non contava una mazza, così come il Post, Fanpage, Rep, Corriere e tutti gli altri.
*
Devi fare login per commentare
Accedi