Internet
I giornali sono troppo Facebook-dipendenti?
Secondo l’ultimo rapporto di Parse.ly, Facebook ha aumentato del 10 percento il traffico verso siti di editori nel mese di agosto, confrontati ai numeri di riferimento dello scorso agosto 2013. Il report dichiara che, tra le sorgenti di traffico prese in considerazione, solamente Facebook subisce un incremento, mentre gli altri (Yahoo, Reddit, Bing) diminuiscono la portata. L’altra tendenza che emerge dal report riguarda il gruppo di riferimento delle fonti di traffico: i siti social (ma, ancora, si sta parlando prevalentemente di Facebook; Twitter rimane sostanzialmente stabile) aumentano del 7%; il traffico da siti di ricerca diminuisce per il 4%. Tuttavia sono questi ultimi a detenere la quota maggiore del 35% contro il 27%.
Naturalmente quando si fa riferimento a “siti di ricerca” è di Google che si sta parlando. E infatti è al primo posto delle fonti di traffico. Lo utilizziamo ancora come strumento principale per informarci sul mondo. Che Facebook sia sempre più rilevante nel modo in cui accediamo alle notizie non è una novità. Come ha scritto Ravi Somaya sul Times, la struttura dei media business è cambiata radicalmente per mano del social web – che è un altro modo di dire: per mano di Facebook (dirige il 20% del traffico verso siti di notizie). Se prima erano gli editori a controllare l’agenda degli interessi dei clienti e il modo distribuire i contenuti, oggi è Facebook che decide cosa mostrare e a chi. E lo fa tramite algoritmi tarati sui nostri interessi, sulla nostra interazione e sulla bolla informativa in cui siamo. (Sebbene gli ultimi studi del Pew Research lasciano intravedere un cambiamento nella polarizzazione descritta da Eli Pariser) Oggi l’editor è l’algoritmo, come scrive Matthew Ingram su Gigaom. Anche se Facebook rifiuta il ruolo di media editor, dicendo che mostra agli utenti solo ciò a cui sono interessati in base al loro comportamento sul sito e alle connessioni sociali (le metriche sono migliaia, ha rivelato un programmatore del feed che usiamo quotidianamente). Se tecnicamente è la realtà, è anche vero che è esattamente ciò che fa un editore: prendere contenuti e lasciarli in un feed, seppure senza una apparente gerarchia di importanza, privilegiando alcuni temi rispetto ad altri. Anche se la scelta non riguarda la linea editoriale di un singolo (per esempio quella che può avere il New York Times), è pur vero che la personalizzazione delle notizie è deve essere considerata una scelta editoriale. Questa evidenza è emersa in modo ancora più appariscente durante gli scontri razziali nella città americana di Ferguson: le notizie erano aggiornate su Twitter più che su Facebook, perché il social network più grande del mondo privilegia argomenti che considera positivi (divertenti, rasserenanti, in accordo con la visione del mondo dell’utente) rispetto a quelli negativi.
Inoltre c’è da notare che se Facebook chiude i rubinetti, a farne le spese sono gli editori. È successo a UpWorthy, Distractify e ad altre testate fondate sulla viralizzazione sociale, quando Facebook ha modificato l’algoritmo nel dicembre 2013: il loro traffico ha conosciuto un vero tracollo. È un rapporto vantaggioso sia per gli editori, che promuovono i propri contenuti, sia per Facebook, che ha materiale per coinvolgere l’utente e ricollocarlo nell’universo di interessi che lo definisce. Un modo tipico di fare dichiarazioni è linkare un articolo con un breve commento, per far sapere da che parte si sta. Qual è la soluzione per le aziende che non vogliono dipendere troppo da Facebook? Evitare la società è impensabile, significherebbe essere tagliati fuori dal mercato. Ingram sostiene che occorre dare ai lettori ciò che Facebook non può o non è disposto a dare: una interazione tra giornale e lettore, che coinvolga il pubblico. Per questo è importante capire chi sono i propri lettori. L’importante è non diventare troppo dipendenti di Facebook, consegnandogli tutti i contenuti, o la battaglia è persa in partenza.
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