Internet
I ban su Twitter e la qualità delle nostre democrazie
La recente sentenza contro Donald Trump e il suo uso di Twitter può essere un interessante esempio di come, attualmente, gran parte delle democrazie occidentali debbano ancora prendere bene le misure con i social network e il dibattito che vi si svolge.
Partiamo dai fatti: Donald Trump, famoso per il suo uso istintivo e poco istituzionale di Twitter, ha bannato alcuni utenti, rei di averlo criticato. Di fronte a questo comportamento, un tribunale d’appello di New York ha decretato l’irregolarità del comportamento.
Secondo il tribunale, infatti, l’account Twitter di Trump fungerebbe da “spazio pubblico”. Avendo il Presidente degli Stati Uniti scelto di stare sul social network, e di farlo tramite un account pubblico, quel profilo è da considerarsi alla stregua di un canale istituzionale, e pertanto mettere a tacere le critiche, negando agli account degli oppositori la possibilità di commentare, violerebbe il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (quello che sancisce, tra le altre cose, la libertà di parola). Il carattere per certi versi istituzionale dell’account di Trump sarebbe quindi conferito anche dal suo essere pubblico e dal suo rimandare a Trump in veste di presidente e non di singolo, per quanto egli utilizzi il suo account personale (@realdonaldtrump) e non quello pensato come istituzionale (@potus).
Come fa però notare il Wall Street Journal in un editoriale, una recente sentenza della Corte Suprema ha stabilito che quando un’entità privata fornisce uno spazio di discussione (come Twitter in questo caso), questa non può essere soggetta al primo emendamento, perché in quanto realtà privata non agisce come ente statale. Bannare utenti su Twitter, quindi, non significa limitare la loro libertà di parola, ma se a farlo è l’account del Presidente USA la faccenda si complica (almeno secondo la sentenza del tribunale d’appello). In ogni caso, è chiaro che si configura un conflitto tra la realtà privata della piattaforma e la figura pubblica di chi la utilizza.
In effetti, astraendo dal caso specifico americano, questa storia ci ricorda, ancora una volta, che non abbiamo un modello chiaro di come regolare il dibattito e le discussioni sui social networks. Gli account dei politici e degli amministratori sono considerabili profili istituzionali? E se si, devono quindi ospitare solo comunicazioni istituzionali? Da tempo i tweet e gli stati su Facebook vengono usati come posizioni ufficiali, con i politici che ne fanno strumento disintermediato per esprimere posizioni politiche e i media che, di rimando, li sfruttano per ricavare argomentazioni su notizie e argomenti di discussione (del resto sono sempre più frequenti articoli in cui si legge che il tal politico “ha twittato che…”, “ha annunciato su Facebook…” lì dove fino a qualche anno fa si sarebbero viste dichiarazioni a giornalisti o conferenze stampa).
Ma al di là delle prassi comunicative e giornalistiche, il tema più generale è come noi tutti stiamo sui social network. Ad oggi, nonostante negli ultimi anni sia cresciuta l’attenzione verso ciò che succede in questi spazi di discussione, non esistono risposte né regolamenti chiari. Anche grazie a questi vuoti normativi, i social hanno potuto diventare, negli ultimi anni, la zona franca dove in molti si sentono in diritto di insultare, minacciare, augurare stupri. Chiaramente, in questa dinamica di inserisce anche la messa alla gogna operata da alcuni politici, nonché certo giornalismo urlato.
Non si tratta di demonizzare la rete e i social, ma di mettere in luca una dinamica ormai presente. Una lettura come quella americana spinge gli attori pubblici a scegliere tra lo stare in rete, tollerando tutto, o semplicemente non starci, con l’effetto di rendere ancora di più i social un ring.
Finché negli spazi online non varranno le stesse regole e responsabilità degli spazi reali (magari prevedendo anche di associare un documento ai profili social, togliendo alla radice la possibilità di intervenire con account falsi) non potrà esserci un piano davvero pubblico delle discussioni.
Sulla regolamentazione dei social e delle discussioni online si giocherà sempre più nei prossimi anni, una parte importante della qualità del dibattito pubblico e del vivere civile, e quindi, in ultima istanza, della qualità delle nostre democrazie.
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