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Due riflessioni sui social media e la guerra in Siria

29 Febbraio 2020

Cercherò di essere breve perché quella che vorrei fare è una riflessione piuttosto che una dissertazione sulla guerra in Siria. Sono quasi 10 anni da quando tutto è iniziato, tanti, e con essi è diventato sempre più imponente il numero di materiale audiovisivo, ma anche narrativo, che ha seguito il conflitto, la guerra civile, l’arrivo dell’Isis e la liberazione, ancora in corso, di uno stato in cui sembra impossibile ripristinare una benché minima parvenza di democrazia.

Partiamo dai social media. Dal 2011 in poi, diciamo pure con lo scoppio della primavera araba, chiunque ha avuto modo di raccontare con le proprie parole quanto succedeva nelle aree interessate dalla crisi. La caduta dei regimi, una volta immortalate dalle videocamere di professionisti del campo, reporter e giornalisti, ha avuto come prerogativa quella di essere a totale appannaggio di chi ha contribuito a minare le fondamenta degli stessi regimi: Tunisia, Egitto, Libia in primis.
Mi ricordo ancora vividamente le prime immagini che arrivavano direttamente da piazza Tahrir, centro nevralgico della cosmopolita Il Cairo, quando giovani come Abdul, Khaled, Zyad, Ahmed e tantissimi altri, studenti, avvocati, informatici, hanno iniziato a manifestare contro il governo di Hosni Mubarak, presidente che ormai era in carica da trent’anni. C’era qualcosa di più nelle grandi raccolte di gente a piazza Tahrir, l’area in cui si sentivano le voci di chi protestava, non era solamente quella della città egiziana, o del mondo arabo, ma era tutto il vastissimo pubblico di gente da tutto il mondo che apriva la timeline dei social e si trovava partecipe di un qualcosa di grande, nel bene o nel male, che stava accadendo al di là del mediterraneo.
Personalmente ricordo di osservare con sgomento assieme a mio padre i video che venivano postati in rete, carri armati, spari, folla atterrita da raffiche di proiettili, bandiere al vento, ponti minati e fatti crollare.
Non era una guerra, ma era il tentativo di riscatto da parte di un popolo documentato interamente in tempo reale dagli stessi che si stavano ribellando. I social media iniziavano ad essere usati per diffondere ciò che le tv di stato non volevano mostrare, ma servivano anche per darsi appuntamento in un determinato luogo, creare comunità e condividere esperienze.

Poco più tardi, quando iniziò la guerra civile in Siria, i media tradizionali seguirono con distacco ciò che accadeva nel regime di Bashar Al-Assad. In effetti quello che accadeva in Siria era abbastanza diverso, in campo c’erano troppi eserciti, troppe alleanze, divisioni e troppo poco in gioco per destare la voglia di informare più capillarmente di ciò che stava accadendo. In questo caso furono i cittadini stessi a documentare le esplosioni, le ritorsioni, gli arresti. Attraverso i tweet e i post su Facebook, arrivavano notizie di bombardamenti, di donne il lacrime e di bambini straziati. I social media avevano dunque iniziato ad avere una dimensione molto più umana ma anche molto più cruda raccontando una realtà che tradizionalmente veniva liquidata con un servizio di pochi minuti nel telegiornale della sera.
Il 21 agosto 2013, nell’inconsapevolezza generale, avvenne l’attacco chimico di Ghūta, un bombardamento col gas sarin che fece oltre 1000 vittime, diventando uno dei più violenti mai realizzati in medio oriente. Deontologicamente i media tradizionali hanno avuto le giuste regole da rispettare per la diffusione di immagini. Questo non è accaduto in Rete, dove subito dopo il bombardamento iniziarono ad essere condivisi i video che raccontavano in presa diretta gli effetti del gas sull’uomo, immagini strazianti, che caricate freddamente con pochi hashtag e qualche commento, risultavano ancora più difficili da poter digerire per chi con l’informazione aveva a che fare per mestiere e soprattutto per chi ne era uno spettatore impreparato.

HBO ha curato un intero documentario (Cries from Syria) costruito su video ripresi da quelli postati in rete che racconta una prima parte della guerra in Siria, montati in modo molto interessante assieme ad interviste a chi in quei video c’era davvero, di cui era protagonista od osservatore.
Quello che emerge dal documentario è soprattutto l’evoluzione che ha avuto nel giro di pochi anni la tecnologia audiovisiva e informatica, un continuo movimento che ha coinciso con l’inasprirsi della situazione e tutti i suoi reali sviluppi.

Abbiamo parlato della primavera araba da cui tutto è iniziato, ci sono poi state le proteste contro Assad, i primi arresti, la formazione dell’esercito ribelle e poi l’arrivo dell’ISIS.
Quest’ultimo ha saputo usare i social media facendoli diventare lo strumento principale per la propaganda, dapprima inserendosi come oggetto collettivizzante e poi come vero e proprio regime del terrore. L’ISIS ha sdoganato la violenza da parte di chi ha preso il potere, una violenza coercitiva e brutale, fatta di impiccagioni, condanne e oscurantismo.
Poi è arrivato l’esodo dei siriani, i grandi movimenti di chi era costretto ad abbandonare la propria casa e i lunghi viaggi, le speranze e le difficoltà raccontando ogni giornata attraverso semplici smartphone. Nella città di Raqqa, una volta diventata capitale dello Stato Islamico erano pochissimi gli internet point rimasti, eppure la gente li usava per comunicare con chi era già all’estero, per organizzare partenze e per sentire se amici e parenti erano ancora vivi e stavano bene, nonostante il nuovo regime.
I social sono quindi stati usati prima per rovesciare una dittatura, per evidenziarne le ritorsioni, per propagandare l’arrivo di un nuovo Stato e poi per tracciare le rotte migratorie con cui gli stessi siriani si stavano muovendo attraverso l’Europa.
Chiaramente questo significò l’interessante nuova occupazione dei giornalisti non-embedded che si trovavano ogni giorno a dover verificare una consistente mole di materiale cercando di stabilirne l’attendibilità e soprattutto lo scopo comunicativo.
Con il tempo, con l’arrivo delle forze curde, le informazioni condivise in rete diventarono ancora più numerose. Combattenti stimolati dalla jihad si confrontavano con altrettanti combattenti che prendevano la parte di chi, adesso, si adoperava contro il califfato di Al Baghdadi.

A questo punto però occorre farci una domanda. Se è vero che, in campo fotografico, si dice che “una fotografia esiste solo quando è stampata”, che ne sarà in futuro di tutti questi video, tweet, dirette e messaggi vocali?
Come potrà uno storico utilizzare tali documenti, come potrà ricercarli, organizzarli, classificarli?
A suo tempo, proprio nel periodo della primavera araba, avevo fatto alcuni post su un social che oggi non esiste più, Storify, in cui era possibile aggregare varie fonti per costruire un documento organizzato e preciso. Parlai di piazza Tahrir, di Ben Alì, di Gheddafi e poi, due anni fa, il sito venne chiuso e tutte le storie perdute. E al di là dei racconti su ciò che accadeva nel mondo arabo, c’erano tantissime storie su fatti di cronaca, politica, economia, insomma era un aggregatore importante, forse anche professionale, per chi si trovava a gestire documenti e informazione.
È vero che oggi si può fare lo stesso inserendo le fonti direttamente all’interno di un articolo WordPress, ma era davvero semplice poter usare Storify con il suo motore di ricerca interno e la sua praticità di condivisione.

Al di là di questo, i giornalisti risultano avere meno impaccio per il proprio lavoro quotidiano, si può costruire un argomento partendo da vari post dei social media. Ma per farlo ci vuole del tempo e nel momento in cui si riesce a creare un documentario, come quello della HBO, il mondo è di nuovo cambiato e ciò di cui si parla risulta essere avulso dalla realtà contingente.
Non è bastato ad alcuni regimi controllare gli accessi alla Rete, sebbene riescano a rallentare il flusso delle informazioni, con le cosiddette VPN è molto semplice per chiunque potersi connettere ad internet by-passando le restrizioni statali.
La mia paura, e parlo soprattutto da giornalista, è che tutta questa ricca sovrabbondanza di materiale vada perduto per sempre. Non lo dico solo per le storie terribili della guerra, ma anche per quelle positive, per quei dettagli che hanno fatto in modo di poter sperare ancora nella civiltà, nella perseveranza e nell’ingegno umano che abbiamo visto saper risollevarsi anche dopo un olocausto.

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