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Biggiogero è la verità

Ovvero come la memi-ficazione di un uomo con problemi psichiatrici ma dotato di istinto di Verità, sia stata la prosecuzione di una violenza di Stato. (Siamo come i poliziotti)

14 Novembre 2024

Sul mio computer ho diversi adesivi tra cui due campeggiano in bella vista col faccione di Biggiogero con una espressione a metà tra il deluso e il costernato incredulo, gli occhi censurati da una grossa barra nera e la scritta “di solito faccio un mix”. La frase, lo dico per la popolazione più distratta dell’internet, è tratta da una puntata storica di ‘Un giorno in pretura’ (diventata poi virale) nella quale il nostro eroe prima racconta di una serata in cui, ubriaco, ha transennato una piazza centrale di Varese, mentre con un suo amico “ululava alla luna”, e poi parla del suo abituale consumo di stupefacenti, sorridendo beffardo a un avvocato che sembra uscito direttamente dal ‘600 e blatera cose come “ma quindi Lei quando si gira uno spinello, dentro cosa ci mette? Sa’, io non sono esperto”. Al quale il nostro, con una espressione che lo denota chiaramente come il più intelligente in quella conversazione, risponde come recita il mio adesivo.

Ciò che purtroppo molti non sanno (ad “andare virali” sono sempre e solo le scene, mai le vicende) è che in quel processo Biggiogero non era imputato, ma era un processo a carico di alcuni carabinieri di Varese, accusati dell’omicidio di Giuseppe Uva, arrestato la notte del 14 giugno 2008, in compagnia di Biggiogero. Uva era un 43enne varesino senza precedenti penali, il cui cadavere verrà trovato in caserma dalla sorella la mattina dopo l’arresto, con evidenti segni di percosse. Il processo in tribunale da cui è nata la memi-ficazione di Biggiogero era, quindi, a tutti gli effetti un processo (uno dei tanti) nei quali si cercava di rendere edotta la popolazione circa presunti reati delle forze dell’ordine e nel quale, fondamentalmente, alcuni poveri cristi, reietti della società veneta perbene e dedita al lavoro, cercavano di far valere i propri diritti e la propria dignità di fronte a gente con molto più potere di loro.

Il caso Giuseppe Uva era ed è in tutto e per tutto assimilabile al ben più famoso caso Cucchi. Però, a differenza dello stesso, non salì troppo agli onori della cronaca, né si risolse con sentenze certe e soddisfacenti. Tutti i carabinieri coinvolti sono stati assolti, ma nel 2021 la Corte Europea dei Diritti Umani ha dichiarato ammissibile il ricorso della famiglia Uva, che d’altronde ha visto un suo familiare entrare – sano e integro – in una caserma, e uscirne morto. Il gruista varesino, al momento, secondo la legge risulta deceduto perché si è dato mazzate da solo, morendo in seguito a testate sul muro autoinflitte. La differenza sostanziale dalla quale è scaturito il clamore del caso Cucchi e il silenzio intorno a quello Uva è da rintracciare – a mio avviso – nella sorella di Stefano Cucchi. Ilaria, ora attivista e senatrice della Repubblica in area piddina, nello scandalo sprigionato dall’omicidio di suo fratello, risultò semplicemente una persona molto più presentabile agli occhi del grande pubblico, più spendibile nel palcoscenico delle notizie tg, del nostro Biggiogero. Ovviamente la sua indomita abnegazione alla causa fece il resto. Ma partiva avvantaggiata. La sua faccia e presenza è più rassicurante, integrata in società, di quella di Biggiogero.  Chi era disposto, in un tg di prima serata sulla rete nazionale, a credere a quel faccione che parla di droghe e serate “dignitosamente brille”, mentre si permette di accusare le nostre ‘mai abbastanza celebrate’ forze dell’ordine?

Vicenda simile è stata subìta da un altro “eroe dei nostri tempi” (da dire con la voce nasale di Capovilla), ovvero l’altro meme-vivente Andrea Alongi, che, nel 2008, in un processo contro dei vigili accusati di aver massacrato di botte un marocchino in caserma a Parma, assurse a eroe dell’internet in seguito a frasi celeberrime come “sì, dai, 5 euro so’ due canne”, “e ma vabbè, i vigili fan le multe”, ecc… oltre al suo essere chiaramente un personaggio fuori posto in un’aula di tribunale.

Entrambi i meme-viventi erano visibilmente problematici. Biggiogero aveva una storia di problemi psichiatrici e dipendenze alle spalle, Alongi veniva da una famiglia emarginata e attenzionata dalla polizia, era un eroinomane ed era seguito dal Sert. Tutto questo, però, vedendo le immagini ancora adesso, non influisce sul fatto che siano probabilmente loro i detentori del giusto e del buon senso nelle rispettive stanze di tribunale. La maniera nella quale rispondono alle domande degli inquisitori è, in entrambi i casi, così sfacciata, priva di riverenza (e quindi sincera) da sembrare innocente, tenera, irridente nei confronti del Potere, che, in questa maniera, risulta il più fuori dal mondo, distaccato dalla realtà, fuori fuoco, attraverso domande intrinsecamente ridicole come “cosa si mette in uno spinello”, oppure “ma quindi questo cocktail era molto forte?”.

Secondo Pirandello l’umorismo nasce dalla visione approfondita di una frattura tra realtà e rappresentazione, “quando si riesce a penetrare così a fondo in un dato momento da poterne cogliere la sofferenza dell’Io diviso.” Ciò che è stato fatto ad Alongi e a Biggiogero da tutti noi fruitori dell’Internet nel processo di memi-ficazione dei due (e conseguente svilimento e clamore mediatico e estrema paraculata a livello nazionale) è stato non riuscire ad arrivare all’umorismo. Ci si è fermati al “comico”, ovvero al livello più superficiale. Il comico è dato, invece,  sempre secondo Pirandello, dal momento in cui in una rappresentazione si introduce un momento di verità. Esattamente come Alongi, quindi, che, più vero del vero, non si piega ai dettami sociali e teatrali di un tribunale, e parla col giudice senza il sussiego che si pretende, ma esattamente come parlerebbe con un amico suo, ci risulta divertente per questo, ci fa ridere. Ugualmente Biggiogero che irride beffardo l’avvocato che gli chiede cosa sia “una kalhua” – senza capire, poverino, che agli occhi perbenisti e iper-moralisti della società “civile” è proprio l’avvocato che, invece, lo sta rendendo una macchietta, per poter derubricare le sue accuse, perché “fatte da un tossico”.

Vedere, poi, il video del confronto diretto tra Biggiogero e il Pm Agostino Abate è particolarmente doloroso. Per quasi quattro ore il nostro cerca disperatamente di risultare educato (ma non ci riesce, perché non ha i codici, è disabile e con evidenti problemi psichiatrici), mentre il pubblico ministero sembra accanirsi su di lui (che sarebbe un testimone, non un imputato), commettendo in diretta una pura e semplice violenza psicologica; confutando tutto quello che dice (e quindi non raccogliendo la sua testimonianza), confondendolo con accuse pretestuose – “hai una bella faccia tosta a chiedere un caffè” – e utilizzando tutti i mezzi che il Potere può esercitare su un ragazzo debole e indifeso. Successivamente, infatti, l’inchiesta fu tolta ad Abate, che venne «sanzionato sul piano disciplinare per le omissioni durante l’indagine e per un interrogatorio al testimone oculare che mortifica le regole processuali dello Stato di diritto». Per la serie: persino il Potere si rese conto di averla fatta troppo sporca (e in video).

I problemi psicologici e relazionali di entrambi, Biggiogero e Alongi, sono proprio ciò che li rende speciali, ai nostri occhi, mentre scorriamo i loro video sul cellulare o su youtube. Ovvero, a uno sguardo superficiale risultano “ridicoli”, e divertenti, ma andando più a fondo (passando dal comico all’umorismo), si rivelano portatori di verità, personaggi tragici che vengono sbeffeggiati mentre cercano di denunciare degli abusi gravissimi, ma non possedendo i codici della società “civile”, vengono relegati a saltimbanco dell’internet, e il Potere si salva. 

Qui non si tratta di fare i seriosi difensori degli oppressi – io personalmente sono il primo che ride quando vedo scene epiche come quella del confronto tra Biggiogero e il giudice che lo guarda stralunato, dicendo “in che senso ululavàte?”. Ma si tratta di capire – con l’umanità, non tanto con il pensiero – che sia Biggiogero che Alongi stavano cercando di aiutare un amico in difficoltà (di cui uno morto), ma non ne sono stati in grado perché pieni di problemi, e quindi vulnerabili. Se si capisce questo si è grado di fare tre operazioni: la prima è ridere, con il cuore e con la testa; la seconda è elevarsi dal rango di ascoltatori medi della Zanzara (il programma che più di tutti ha fatto fortuna sull’irridere casi umani, veicolando “incidentalmente” – dicono loro – messaggi politici fascistissimi e malati, ad un passo dal darwinismo sociale). Riuscire quindi a non ridere sempre e solo di pancia, l’antica e nobile differenza tra il ridere di qualcuno (l’irridere, il sentirsi superiori, il denigrare il diverso e il più debole) e il ridere con. La terza, quella più importante, è capire le dinamiche di potere, vedere cosa davvero sta succedendo in quell’aula di tribunale, capire che i mali di Alongi e Biggiogero vengono usati contro di loro, per salvare i più forti dalle possibili conseguenze delle loro azioni. Imparare a vedere la dinamica di Potere nelle scene e nelle relazioni di fronte a noi è capire dove è più giusto schierarsi.

Perché è così importante, a mio avviso, il dileggio virale di Biggiogero? Perché a ridere di lui siamo stati Noi. Giovani o meno giovani utilizzatori di internet, tendenzialmente gente che ha studiato, o perlomeno due libri li abbiamo letti. E il fatto che noi ci si continui a credere superiori, mentre – nei fatti – ci comportiamo come un La Russa qualsiasi coi migranti: irridendo, puntando il dito tra risate sguaiate, e dimenticandoci subitissimo dell’ultima vittima virale di sacrificio sull’altare del nostro dileggio per passare oltre, è preoccupante. Ma anche questa è l’antica storia del pulpito di superiorità morale – mai pervenuta – della Sinistra.

Poco tempo fa, sulla home di Youtube, mi è spuntata una lunga video-intervista ad Andrea Alongi, in stile Soft White Underbelly. Il ragazzo di Parma si è ora disintossicato, lavora in uno studio di tolettatura di cani, ha intrapreso da tempo un percorso di psicoterapia e risulta evidentemente più presente a se’ stesso, persino saggio e incredibilmente tenero in molti passaggi. Insomma, molto semplicemente una persona buona – merce rara.

Biggiogero invece, in una spirale che ricorda quella subìta da Placanica (capro espiatorio gonfio di psicofarmaci dell’omicidio di Stato Giuliani, e ridotto psicologicamente a un rottame), è attualmente in carcere per l’orribile omicidio del padre. Dall’essere un meme malato e vittima di disturbo oppositivo-provocatorio, è diventato direttamente lui, infine, l’assassino. La vicenda del suo amico morto in caserma, il clamore mediatico, il dileggio pubblico e i problemi psichiatrici pregressi, uniti all’abuso di sostanze e ad un profondo malessere, sembrerebbero aver avuto la meglio su di un individuo malato e dotato di una psiche molto debole. Che ha quindi finito per commettere un delitto orrendo, spezzando chissà quante vite vicine alla sua, e sprofondando nella disperazione.

Chissà se, in una collettività (anche quella virtuale) più umana, più riflessiva, meno tendente al ridere ad ogni costo, più disposta all’avere a che fare col menomato mentale o col diverso in una maniera altra dal ridere di lui e basta, chissà, dicevo, se le cose sarebbero andate diversamente. Forse, anzi probabilmente, no. Certi problemi sono profondissimi e di difficile risoluzione. Ma sicuramente, così come i più deboli sono i primi a fare le spese della violenza dei potenti, così son sempre loro a trarre i primi vantaggi da una società e da un modo di essere e di porsi (anche verso i contenuti online) più accogliente, scafata e profonda, da parte di tutti.

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