Internet
Andare alla lavagna e scrivere 100 volte: Facebook non è mio
Da alcuni mesi mi capita di assistere ad uno strano fenomeno che coinvolge anche chi, come me, lavora con i Social Media e con la comunicazione in genere; partecipando sia come ospite che come semplice invitato a diversi convegni ho avuto modo di osservare da vicino il concepimento e quindi la nascita di una strana teoria, poi diventata quasi corrente di pensiero, secondo cui Facebook [e Twitter, e Instagram, e Linkedin e, e, e..] sarebbe equiparabile in tutto e per tutto ad un bene comune.
Durante le sospirate pause caffè dei convegni di cui sopra, ho sentito sempre più spesso frasi come “Ehi, ma che assurdità è l’ultima modifica di Edge Rank? Qualcuno ci ha chiesto qualcosa?”
Oppure: “Eh no! Twitter non si cambia: 140 caratteri sono e 140 devono restare!”
Ora, finché il tutto rimane ben incasellato nella categoria delle chiacchiere da bar non ci sono problemi: il bar è il bar. Il problema sorge là dove si esce dal bar e si rientra in ufficio, perché la discussione, se mantenuta a questo livello, ha ricadute ben diverse e più gravi.
Poco tempo fa sono stato interpellato su tale questione in quel di Milano, durante la pausa di un workshop sul community management cui ero invitato; la domanda era più o meno: “Non trovi anche tu che sia assurdo il comportamento di Facebook riguardo a..”
Da tempo penso esistano due Facebook: quello reale e quello percepito.
Quest’ultimo è vissuto [o abitato] come qualcosa di acquisito, uno strumento divenuto standard de facto con cui ogni giorno comunichiamo; è vissuto come la tv, come l’automobile, come lo smartphone o la carta di identità. Fin qui tutto bene, perché il termine stesso ‘de facto’ va a rappresentare una situazione che a volte assume connotati fattivamente diversi da quelli per i quali è nata [Facebook doveva essere un network universitario, del resto]. Inizia ad andare decisamente meno bene nel momento in cui si inizia a confondere quello che è uno standard con un bene comune, percezione con realtà.
L’acqua è un bene comune. Facebook, semplicemente, no.
Facebook è una piattaforma totalmente privata, quotata sulla principale piazza finanziaria mondiale, ha degli azionisti, un Consiglio di Amministrazione e ha un unico scopo: produrre valore. Certo, Mark Zuckerberg finanzia un sacco di attività filantropiche, ma Facebook deve solo fare una cosa: produrre ricchezza come ogni impresa privata profit di questo mondo.
Credo inoltre sarebbe utile sfatare il mito della gratuità di Facebook [che ne alimenta la percezione di bene comune, forse], perché credo nella massima secondo cui “se è un prodotto è gratis significa che la merce sei tu“. Ogni volta che postiamo un link, scriviamo una frase, carichiamo una foto noi paghiamo a Facebook esattamente ciò che vuole: i nostri gusti, le nostre aspirazioni ed infine la nostra smisurata ambizione di essere letti, ascoltati, approvati. Secondo voi chi ci guadagna in questo scambio?
Così, mentre il limitarsi alla percezione di Facebook è normale per un utente medio che riempie la propria timeline, non è normale che tale percezione si stia radicando anche tra chi con i social ci lavora a vario titolo: giornalisti, blogger, professionisti della comunicazione.
Così ho risposto ai miei commensali: “Se c’è una cosa che trovo assurda è l’approccio che molti di noi hanno riguardo a questo argomento”. E’ possibile che sia stato un po’ brusco, forse è vero che come risposta è un po’ così, ma è anche vero che se non conosci lo strumento con cui lavori diventa tutto più difficile. No?
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