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Amazon, Maria Laura Rodotà e i dilemmi di chi è figlio di papà
Qualche giorno fa Maria Laura Rodotà ha scritto un articolo che nessun giornaletto di quartiere meriterebbe e che invece viene ospitato dal Corriere della sera. Lo spunto per le raffinate riflessioni della giornalista è dato da un’inchiesta del NYT, pubblicata qualche giorno fa, sulla cultura aziendale di Amazon. Dall’inchesta emerge il racconto di un ambiente di lavoro molto rigido, quasi disumano.
Il commento della Rodotà a questa inchiesta è la classica cozzaglia di insulti gratuiti e scemenze contro quel mostro che una parte della sinistra intellettuale italiana non riesce ancora a guardare negli occhi: l’economia globale di mercato. I nemici da attaccare per colpire lo spaventoso mostro sono sempre gli stessi: imprenditori, amministratori delegati, dirigenti d’impresa; spesso ricchissimi e statunitensi. Gli argomenti ancora quelli 68ini: sfruttamento, schiavitù, arricchimento sulla pelle degli altri, crudeltà capitalista.
Tra la miriade di scemenze che l’articolo contiene ne cito solo due per far capire il livello delle argomentazioni e la qualità delle informazioni che il Corriere, per mezzo della sua editorialista, ci propina:
Rodotà dice che Amazon è diventata più grande di Walmart, un’altra multinazionale USA proprietaria di catene di negozi al dettaglio. Difficile cercare di capire cosa intenda la nostra illuminata giornalista con la formula “più grande”. Tuttavia, semplicemente consultando Wikipedia, si scopre che Walmart ha un fatturato di 446 miliardi di dollari con 2.200.000 di dipendenti; Amazon fattura 74 miliardi e ha 88.400 dipendenti (altri dicono 150.000). Chissà cosa intendeva la nostra sublime penna. Forse si riferiva alla crescita della valutazione di mercato di Amazon che nei giorni scorsi ha sorpassato Walmart di circa 30 miliardi (249 miliardi contro 221). Comunque sia, quando si parla della grandezza di un’azienda, pare difficile non calcolare il fatturato e il numero dei dipendenti come fa allegramente la Rodotà.
L’articolo continua informandoci che Jeff Bezos, l’odiato fondatore di Amazon, possiede un patrimonio personale di 250 miliardi. Forbes parla di 34, Bloomberg di 48. Ma le fonti di Rodotà, cioè i suoi sogni in fase Rem e un avanzato stato di frustrazione da capitale, saranno sicuramente più attendibili delle due testate. O magari avrà confuso la capitalizzazione azionaria di Amazon (circa 250 miliardi) con il patrimonio personale di Bezos. Inutili distinzioni, alla Rodotà interessa solo dirci che Bezos è brutto, ricco e cattivo.
I fatti riportati da Rodotà sono perciò dei non-fatti. Ma anche se fossero dei fatti? Che male c’è nel diventare sempre più grandi, con più dipendenti e un maggiore mercato? Perché la Rodotà prova fastidio se Bezos guadagna nel 2015 più soldi di quelli guadagnati nel 2014?
Qui interviene la genialità filosofica della plume del Corriere: Amazon e suoi fratelli (Google, Apple, Facebook) sfruttano i dipendenti (definiti, in modo gratuitamente offensivo, “microservi”), li schiavizzano, li rendono degli automi. Si tratta di “sette” di fanatici interessate solo ai soldi, non di aziende (altra offesa). Ecco, allora, rivelato l’arcano; ecco perché non vanno bene i soldi di Bezos ed è un problema se Amazon diventa più grande di Walmart: sono degli sfruttatori, trasformano gli uomini in automi! Proprio come nei libri di fantascienza che piacciono tanto alla Rodotà e che consiglia di leggere per capire la New Economy (sic!).
Niente di nuovo sul fronte occidentale: ennesima dimostrazione dell’ignorante anticapitalismo in salsa tricolore che non si sforza di capire il mondo ma si limita a odiare chi produce ricchezza e posti di lavoro tramite la realizzazione di idee innovative. Insomma, invece di riflettere su un tema importante, magari commentando un’interessante inchiesta del NYT, si sputano ideologia, frasi fatte e luoghi comuni. Si divide il mondo in buoni e cattivi.
Se lasciamo per un attimo da parte i romanzi di fantascienza, notiamo, invece, che le strategie di Amazon per sviluppare un ambiente di lavoro competitivo, esigente e volto alla maggior produttività possibile, erano già state oggetto, prima dell’inchiesta del NYT, degli interessi del Guardian. Sono stati inoltre pubblicati The Amazon Way, scritto da John Rossman, un ex dirigente che definì la società di Bezus «il miglior posto di lavoro dove ho odiato lavorare» e The Everything Store: Jeff Bezos and the Age of Amazon, una storia di Amazon dal 1994 al 2014 scritta da Brad Stone.
In quest’ultimo libro c’è praticamente tutto quello che il NYT ha rivelato nella sua inchiesta. Come già spiegava Stone: “una volta che i dipendenti hanno abbracciato i nuovi valori di Amazon, non tutti resistono al ritmo vertiginoso del lavoro. L’accelerata crescita di Amazon è dipesa anche dalla rigida gestione dei dipendenti da parte di Bezos, con convocazioni durante il fine settimana, riunioni del gruppo dirigente il sabato mattina, e la continua ripetizione delle sue massime sul lavorare in modo intelligente, duro e costante. […] Di conseguenza, la società non è cordiale verso le famiglie, e alcuni dirigenti lasciano l’azienda quando vogliono avere figli. “Jeff non credeva nell’ equilibrio tra lavoro e vita”, dice Kim Rachmeler. “Credeva nell’ armonia tra lavoro e vita. Credo che l’idea consista nel credere che si dovrebbe essere in grado di fare entrambi in una volta.”[…] Durante un memorabile meeting, una lavoratrice chiese a Bezos quando Amazon avrebbe stabilito un migliore equilibrio tra lavoro e vita. Lui non la prese molto bene. “Il motivo per cui siamo qui is to get stuff done, che è la priorità assoluta”, rispose senza mezzi termini. “Questo è il DNA di Amazon. Se non sei in grado di eccellere e mettere tutto in essa, questo potrebbe non essere il posto per te”.
La rigidità della “filosofia aziendale” di Amazon era quindi già ben conosciuta e divulgata prima dell’inchiesta del NYT. Inoltre, al netto delle sue peculiarità, si tratta di pratiche comuni ad ogni società impegnata a creare, formandolo, il proprio capitale umano. Nonostante negli anni Amazon abbia ammorbidito molto certe esagerazioni, soprattutto per non perdere attrattività agli occhi dei giovani top talent che potrebbero scegliere Google o Facebook, la creazione di uno spirito d’identità grazie al quale il dipendente si riconosce nei progetti e nelle visioni dell’azienda è rimasto fondamentale.
Infatti, come insegna l’economista George Akerlof, l’identità del singolo dipendente (il senso di sé stessi dice l’economista) influisce molto sulla performance dell’intera azienda. Nelle imprese, secondo Akerlof, esistono due tipi di dipendenti potenziali, con diverse attitudini: la prima consiste nell’adesione totale agli obbiettivi dell’impresa; la seconda vede l’impresa come mezzo per realizzare i propri obbiettivi. Le imprese in cui i dipendenti con la prima attitudine prevalgono funzionano meglio.
Perciò, una delle sfide imprenditoriali più importanti per chi gestisce aziende delle dimensioni di Amazon, cioè con decine di migliaia di dipendenti, è quella di cercare di attivare sentimenti di partecipazione e identità che permettano di oltrepassare quelli utilitaristi ed egoistici. Questo lo si può fare solo con meeting, discorsi, momenti di confronto e formazione, ferree regole di comportamento. Tramite, cioè, la creazione di una cultura comune. Ogni ambiente di lavoro internazionale che si misura su un piano di elevata competizione prevede questa dinamiche di creazione di comunità.
Certamente: la creazione di uno spirito aziendale votato all’impegno, alla completa dedizione, all’aumento costante delle performance e all’esclusione di chi non è considerato all’altezza, può creare delle situazioni di mancata empatia (come le chiama Bezos nella sua risposta al NYT) e portare a comportamenti di fredda ingenerosità come quelli riportati dall’inchiesta della testata newyorkese. Si tratta tuttavia di imperfezioni, di corto circuiti e non è certo interesse di Amazon che questi episodi si moltiplichino. Come scrive Bezos “I don’t think any company adopting the approach portrayed (dal NYT) could survive, much less thrive, in today’s highly competitive tech hiring market”.
Inoltre l’inchiesta sembra dimenticare che i cosiddetti white-collar (dirigenti e personale amministrativo) di Amazon sono personale altamente qualificato, ben pagato e con grande potere contrattuale (altro che servi). Non a caso, la maggior parte degli intervistati dal NYT ha lasciato Amazon per approdare ad altre grandi società. I dipendenti attuali, invece, sono molto motivati e sposano la filosofia dell’azienda. Il punto debole dell’inchiesta, a mio parere, sta nel non puntare l’attenzione sui blue-collar, i lavoratori non qualificati senza potere contrattuale.
Questo era stato l’interesse di altre due inchieste. Una del Morning Call pubblicata nel 2011 che riporta le condizioni di lavoro nei magazzini negli USA; ed un’altra, quella di Mac McClelland, un giornalista che ha lavorato in un magazzino di Amazon. Il ritratto che esce da queste due inchieste è deprimente: il ritmo di lavoro, le condizioni, le retribuzioni e gli orari sono quasi disumani. Quella dei “colletti blu” è la vera zavorra delle grandi compagnie USA, non solo di Amazon: sono trattatti in modi quasi disumani, non hanno opzioni lavorative, hanno zero potere economico.
Comunque sia, la storia di Amazon aiuta a capire che una compagnia impegnata a competere a livello mondiale e intenzionata a dare il miglior servizio possibile al cliente si trova nella situazione di non poter promuovere per i suoi dipendenti un virtuoso equilibrio tra lavoro e vita. Chi decide di lavorare in società del genere è consapevole di questo. Come scrive Courtney Hartman, una dipendente Amazon, “sono sorpresa di vedere che qualcuno non aveva idea di cosa stava accettando firmando (un contratto con Amazon). Per me è stato sempre chiaro”.
Dall’Italia, dal Corriere, tutto questo viene letto come tenatativo di trasformare i dipendenti in servi. In realtà si tratta di coltivare il prorio capitale umano sulla base della competizione e del merito. Robin Andrulevich, un ex dirigente, dice che senza questo lavoro Amazon “non avrebbero mai potuto ottenere ciò che ha raggiunto”. Un altro mondo. I figli di papà non possono capire. Loro lo chiamano sfruttamento.
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