Teatro

Teatro, l’energia punk del Club Gewalt irrompe in Biennale

22 Agosto 2019

Una sventagliata di energia punk ha fatto irruzione nella Biennale Teatro, nell’ultimo scorcio (27-30 luglio) della sua quarantasettesima edizione, curata da Antonio Latella e dedicata a un tema sensibile come quello delle drammaturgie. L’ha illuminata con i fasci di luce e i fumi della rutilante macchina spettacolare costruita dal Club Gewalt, sette scatenati performers guidati dalla drammaturg trentunenne Anne van de Wetering con base a Rotterdam, protagonisti di un teatro musicale che unisce pop culture, melodramma e arti visive. Più di un happening la loro performance è piuttosto un largo cabaret che niente esclude: dalla musica alla comicità teatrale, dalla satira politica al gioco del bingo: il tutto in un oliato gioco di incastri dove lo spettatore viene risucchiato in un vortice di sensazioni, passando da timido testimone a partecipe attore in “Club Club Gewalt Punk 5.0”, evento di oltre tre ore all’interno dell’informale spazio post industriale del teatro alle Tese dell’Arsenale, immaginato come una notte da trascorrere in un club, con bar aperto, barman e dj, ma anche tributo allo spirito ribellistico tout court del punk. Un mix tra teatro d’opera, commedia e musical act: divertente e coinvolgente, scandito in quattro differenti capitoli. Si parte con un concerto dal vivo che è quasi un prologo dei differenti focus dell’opera. Ci si trova immersi nell’atmosfera liquida e rigeneratrice di un live fatto da veloci canzoni rock con gli attori che si danno il turno come strumentisti e vocalist nello stretto palcoscenico a contatto con il pubblico. Liriche dai contenuti espliciti. Una dichiarazione d’appartenenza per questa giovane compagnia che si fa portavoce di posizioni anticapitalistiche, sostenitrice dei diritti, fede vegetariana e contraria al consumo della carne. Seguendo i tempi di un live hardcore pompa musica e teatralità in modo parossistico senza lasciare vuoti. E il rock colpisce e conquista anche chi in un primo tempo era apparso disorientato entrando nell’ampio capannone allestito come un nightclubbing.

Il concerto rock che ha aperto il “Club Club Gewalt Punk 5,0” al teatro le Tese all’Arsenale di Venezia (foto di Andrea Avezzù)

“Il nostro è un mondo di vertigine _ canta un attore, mentre basso e chitarra non danno tregua, accelerando il ritmo _ E’ un mondo che brulica di mediazione tecnologica, intrecciando le nostre vite quotidiane con l’astrazione, la virtualità e la complessità”. E ancora: “La “Natura” non sarà più un rifugio per l’ingiustizia, né la base per qualsivoglia giustificazione politica! Se la natura è ingiusta, cambiare la natura!”. Tributato un omaggio al femminismo, da Patti Smith a Silvia Plath, da Frida Kahlo a Pussy Riot è il momento di lanciare altri coriandoli di idee. Piccoli enunciati e strofe dedicate volta per volta al “Costruttivismo”, al bisogno di essere informati, la Società e la Vitalità (che interroga: “Lasceremo che si arrivi fino al dolore infinito e alla grande tristezza o siamo ancora abbastanza vitali per seguire percorsi totalmente nuovi…?”), contro il consumo di carne o il partito conservatore olandese Vvd (“State solo dividendo questo Paese”) e il ricordo di Disney (“… mi ha fatto impazzire con l’opportunità di pensare all’utopia/Confusione”) fino all’ultimo “It is time” lunga ballad che prende di mira i luoghi comuni “della fissazione culturale per le donne snelle” e la presa d’atto che “le donne magre sono obbedienti/Non voglio essere quella donna. Sarò grossa” canta un’attrice, soprabito in cuoio e capelli biondi.

Il pubblico si accalca sotto il palcoscenico per assistere al concerto del “Club Club Gewalt Punk 5.0” (foto Carlo Sarti)

Due minuti al buio ed è cambio totale di scena. Il live è già alle spalle, corposo e piccante preambolo di un mosaico spettacolare inatteso che sceglie nel suo secondo capitolo i tempi di una surreale stand up commedy: prendendo le mosse da una Genesi riveduta e corretta racconta il trionfo di “Kapitalismus”. L’attore Amir Vahidi anima lo spazio da perfetto entertainer proponendo prima una impressionante imitazione della star cinematografica Matthew McConaughey e poi chiamando sul palco alcuni spettatori fino a preparare l’audience per il “Bingo, un gioco di vita”. Il pubblico viene diviso per squadre e il vincitore butterà giù un pallone dalla scritta “Eurocentrism”, sospeso in aria come le pentolacce del carnevale, pieno di gadget e T shirt. Ed ecco l’atto finale dell’opera che vira in “Politica: un dramma”: divertente parodia della serie televisiva “Games of Thrones” dove la politica e la società entrano prepotentemente in campo: allusive e spiazzanti. I duellanti hanno le vesti e le sembianze di Daenerys Targaryen e Jon Snow che cercano di farsi fuori a vicenda impersonando i ruoli del senatore democratico Bernie Sanders e il repubblicano Scott Pruitt, ma non si rinuncia anche a colpire sui problemi dell’immigrazione Matteo Salvini versus il deputato democratico Khalid Chaouki. Il Club Gewalt va così oltre i generi tenendo come filo conduttore la musica per unire gli spezzoni di un’opera che qua e là rivendica continuità ideale con le avanguardie fiamminghe. In questo, Club Gewalt, è degno erede di una tradizione di ricerca che punta a costruire dal vivo eventi di arte totale. Notevole, d’altra parte, è la loro padronanza dei diversi linguaggi della scena. Dalla musica, come autori ed esecutori, dalla danza al recitare, con punti di vista innovativi sullo spazio scenografico e per la costruzione stessa degli atti teatrali, frutto di un lavoro collettivo e una drammaturgia che mette a girare più elementi, cambiando così continuamente le gerarchie senza mai perdere il filo narrativo.

Lo spettatore vincitore al termine del  giuoco del “Bingo” colpisce la sfera “Eurocentrism” (foto Andrea Avezzù)

Esempio di precisione _ testimonia anche l’eccellente originalità di questa formazione _ è “Yuri”, battezzata come “a workout opera” cioè spettacolo ginnico in cui al centro è una danza sportiva che riporta al fascino minimalista delle coreografie di Lucinda Childs, in particolare la memorabile della stagione di “Dance”, segnata dall’incontro con il compositore Philip Glass e l’artista visuale Sol LeWitt. In 39 minuti (il tempo è scandito da un orologio digitale alle spalle dei performers) Club Gewalt racconta la storia di un’ascesa e una caduta, quella di Yuri van Gelder, “Il Signore degli Anelli”, straordinario ginnasta campione olandese che arriva al top della carriera per perdersi nel 2016, alle finali olimpiche di Rio quando venne pizzicato per aver festeggiato una notte intera bevendo birra. L’episodio gli valse l’espulsione dalla nazionale. Il racconto segue il ritmo della musica e il frenetico muoversi dei performers che danzano precisi e all’unisono abbigliati con tutine da ginnasta blu e celesti quasi fossero in un clip televisivo degli anni Ottanta. Oltre al già citato Vahidi sulla scena anche: Loulou Hameleers, Yorick Heerkens, Suzanne Ripping, Robbert Klein, Gerty Van De Perre e Sanna Elon Vrij.

Il Club Gewalt in un momento dello spettacolo “Yuri” alla Biennale di Venezia (Foto Andrea Avezzù)

Amore, violenza e solitudine compongono il filo che collega due avvolgenti e intense pieces della scrittrice e drammaturga Patricia Cornelius e la messa in scena curata dalla regista Susie Dee, direttrice del Melbourne Theatre: australiane entrambe, collaborano assieme da trenta anni. Il loro teatro è essenziale fatto di poche vie di fuga da una realtà, quella che da diversi decenni la scena anglosassone racconta al cinema e al teatro. Sono coloro che vivono ai margini della middle class, esclusi e guardati a vista per non infettare i quartieri alti della borghesia. Susie Dee dirige con mano sicura attori di sorprendente vis interpretativa che hanno inciso nel loro Dna la nobile storia del teatro anglosassone contemporaneo. Da quello che evocava la rabbia e la minaccia agli eroi pinteriani, fino alle icone del film “Trainspotting”. In una pedana al centro della scena, simile a un ring senza rete protettiva, prendono forma gli intrecci di “Love” la prima delle due opere presentate in laguna. Protagonista principale è Annie (Carly Sheppard) giovanissima prostituta che mantiene sia la sua ragazza, Tanya (Tahlee Fereday), che il boyfriend tossico Lorenzo (Benjamin Nichol) veloce quest’ultimo nell’infilarsi a casa di Annie nel momento in cui Tanya finisce in galera. Sono gli incastri quotidiani senza speranze di tre giovani vite a perdere ad essere presentate in dialoghi taglienti, dove fa capolino improvvisa la poesia, sostenuta dalla espressiva colonna sonora di Anna Liebzeit, mentre le luci acide di Andy Turner suggeriscono clausure labirintiche.

“Love” di Patricia Cornelius, regia di Susie Dee con Carly Shepard, Tahlee Fereday e Benjamin Nichol (foto Andrea Avezzù)

Qui l’amore è solo un’illusione travestita da speranza. Niente di diverso in fondo da quanto accade in “Shit” altra prima europea dell’ottimo duo australiano. Tre donne che la vita ha indurito con violenza. Un’armatura indispensabile per combattere e difendersi oltre il muretto protettivo che delimita il complesso abitativo di uno slum degradato dove è la legge del più forte a comandare. Sam (Peta Brady), Bobby (Sarah Ward) e Billy (Nicci Wilks) non a caso hanno nomi maschili, nickname indispensabili per mascherarsi. Ragazze fuori controllo, ragazze indecenti dicono Dee e Cornelius. Ragazze che scelgono il turpiloquio e parlano soprattutto di quello che non hanno. Tutto ciò che il quotidiano ha escluso dai loro orizzonti. Hanno la scorza dura ma ciò che vorrebbero è qualcuno capace di portarle via. Potessero magari fuggire da quel carcere di quartiere senza finire invece separate in una prigione autentica dopo un’altra aggressione finita male. Niente fughe, niente amori, nessun futuro. No future, come scandivano i punk inglesi, ribelli senza causa e protagonisti incompresi di una rivoluzione nel 1977 nata nei sobborghi proletari della fu Swingin London.

Una scena da “Shit” di Patricia Cornelius, regia di Susie Dee con Peta Brady, Sarah Ward e Nicci Wilks (Foto Andrea Avezzù)

Negli stessi giorni in cui Club Gewalt e la compagnia australiana diretta da Susie Dee hanno presentato i loro lavori trova spazio un’altra sorpresa: la scrittrice e drammaturga cilena Manuela Infante porta in scena il suo fantastico atto teatrale “Estado Vegetal” (sua seconda piece presentata è “Realismo”) un’opera visionaria di indimenticabile impatto emotivo, forse un po’ lungo e in alcune parti ridondante, ma quanto coinvolgente. C’è qualcosa di musicale nel disegno di questo allestimento che incatena alla visione. A cominciare dalla formidabile attrice Marcela Salinas: poliedrica, capace di essere uno e centomila. Dà corpo a più persone stratificando sguardi, espressioni e voci (anche con l’ausilio di una loop machine) come se rileggesse individualmente il buzz di uno sciame di api operose dentro un alveare. Verosimilmente baricentrica in un mondo in piena trasformazione, dove l’umanità appare sospesa: metà nel bozzolo e l’altra in uscita. In trasmutazione/trasmigrazione verso un pianeta fatto di sole piante, arbusti, steli e foglie. Ed è un albero l’inizio di tutto. Uno pluricentenario che sta in un piccolo villaggio. Lasciato crescere senza essere mai potato una sera raggiungerà i fili della corrente elettrica prendendo fuoco nello stesso istante in cui un giovane a bordo di una moto andrà a sbatterci sopra finendo in stato vegetativo. Da qui si dipana una rete di micro racconti che si sovrappongono. Imitano il ramificarsi degli alberi presupponendo un’altra civiltà con differenti maniere di vivere e organizzarsi.

Marcela Salinas in “Estado vegetal” di Manuela Infante in scena alla Biennale (Foto Andrea Avezzù)

Sarà forse l’angoscia per il riscaldamento globale, la paura di una incombente catastrofe umana, ma in “Estado vegetal” prende forma poeticamente il contorno di un possibile cambiamento. Le piante hanno intelligenza e vita autonoma: piano piano si sostituiranno agli esseri umani e il pianeta riconquistato, vivrà di nuovo. Anche fisicamente le piante iniziano ad occupare la scena moltiplicandosi. Un giardino sempre più grande che diventa selva, stato vegetale. Tra le foglie filtrano luci soffuse che confezionano geografie pittoriche simili alla “Grande zolla” di Albert Durer: l’universo in un filo d’erba. C’è qualcosa di magico e potentemente spirituale in tutto questo. Sembra il racconto di un mondo che sta per finire, il confuso reportage di un altro a venire. Forse è per questo che, dopo una prima parte caratterizzata da un ritmo stringato, lo spettacolo tende un po’ a perdersi, reiterando immagini e dilatando lo spazio della narrazione, quasi fosse incerta o ancora in divenire una fine già annunciata e che, pur passando attraverso quadri di illuminante bellezza, rischia la didascalia. E di conseguenza l’affievolirsi di una emozione che, ciò nonostante resta grande e forte per l’intera opera. Poetica e disarmante come poche.

Come sono apparsi distanti i lavori presentati, negli stessi giorni, dai teatranti italiani. Molto diversi e lontani da quanto messo in scena e raccontato da quelli stranieri. Non è esterofilia, ma pura e semplice constatazione. Non è tanto, ma quanto visto in quel breve lasso di tempo dà la sensazione che molta scena italiana abbia ancora molto cammino da compiere e ritrovare grinta e idee per raccontare i nostri giorni. Spesso rifugiarsi nel mito e nelle rivisitazioni rinvia il tempo del coraggio e delle scelte. Ed è questo anche il grande merito della direzione di Antonio Latella: aver favorito uno sguardo su quanto si muove in termini di drammaturgia fuori dai confini. E’ salutare e utile per crescere. C’è tanto da imparare, ed è dai confronti che scaturiscono le idee e il nutrimento per la cultura.

Marcela Salinas in un altro momento di “Estado Vegetal” di Manuela Infante presentato giorni fa a Venezia (Foto Andrea Avezzù)

Non ha convinto del tutto, ad esempio, la riproposizione di due pieces curate dal napoletano, recentemente approdato ai Teatri Uniti, Pino Carbone: “PenelopeUlisse” e BarbabluGiuditta”, riunite in una sorta di mini festival ribattezzato “Progetto Due”. Due lavori entrambi basati sul dialogo e allo stesso tempo sulla relazione tra presente e passato, mito e fiaba, figura dell’eroe e quella del mostro. La prima è una rivisitazione in chiave contemporanea del ritorno a casa, dopo trenta anni, di Odisseo (Giandomenico Cupaiolo) dalla sua Penelope (Anna Carla Broegg). Tra i due la distanza del tempo e dell’attesa ha cambiato alla base il loro rapporto. Il ritorno non ha più l’aura eroica ma è diventato terreno di duro confronto. Tutto è ben congegnato, come nel successivo e forse più intrigante Barbablù (Luca Mancini) e Giuditta (Rita Russo) con al centro il rapporto tra vittima e carceriere etc.. Gli atti unici si avvalgono di attori di ottimo livello, splendide musiche, opera dell’ensemble Camera, tra le realtà musicali emergenti più interessanti d’Italia, ma l’allestimento pur ben montato non decolla.Troppa costruzione sotto vitro può far scarseggiare l’anima e la poesia.

L’attrice Anna Carla Broegg in “PenelopeUlisse” perte del “Progetto Due” di Pino Carbone (foto Andrea Avezzù)

Si entra nel campo della filosofia e della psicoanalisi, spigolando tra i grandi interrogativi,  come quelli sul Supremo, quando si fanno i conti col quotidiano. Accade nel day by day di quattro piccolo borghesi nella Capitale: quarantenni in crisi, sessuale ed esistenziale, raccontati dalla penna della pluripremiata Lucia Calamaro che alla Biennale nella doppia veste di autrice e regista ha presentato in prima nazionale il suo “Nostalgia di Dio”. I quattro tormentati amici sono: una coppia di separati, Cecilia (Cecilia Di Giuli) preoccupata di allevare il figlio e concentrata sulla sua neo indipendenza e il suo ex Francesco (Francesco Spaziani) che vorrebbe invece a tutti costi recuperare il rapporto e tornare a casa. Non ci riesce e si strugge. A fare da contorno c’è Simona (Simona Senzaqua), una insegnante anche questa in crisi d’identità che vorrebbe avere un bambino. Suo è il grande quesito. L’umanità può essere stata voluta solo da un Dio bambino. “Se fosse stato adulto ci avrebbe creato? Penso di no! Siamo il capriccio di un Dio bambino” dichiara. E infine Alfredo (Alfredo Angelici), in passato una love story con Cecilia, ma oggi è sacerdote. A lui spetterebbe far da paciere offrendo conforto spirituale a tutti.

“Nostalgia di Dio” di Lucia Calamaro presentato al teatro Goldoni con Cecilia Di Giuli e Francesco Spaziani (foto Guido Mencari)

E tutti appaiono assai impegnati a sviscerare il proprio ego. Dialoghi e riflessioni in solitario senza comunicare. Fiumi di parole mentre sono impegnati a fare… nulla di particolare. Si ritrovano in interni casalinghi o in un campo da tennis e, nella seconda parte, a calpestare ghiaia nel corso di una metafisica passeggiata notturna alla scoperta delle chiese romane. Per oltre due ore si seguono i dialoghi dei personaggi in continua marcia sul palcoscenico. E, se nella prima parte viene in soccorso l’ironia e un certo “allure” comico, nella seconda il tran tran diventa ripetitivo al limite dello sbadiglio. Certo, i dialoghi sono ben costruiti (soprattutto le due attrici dimostrano di averne un maggiore controllo) e, tra gli interstizi di una normalità giornaliera, fanno capolino i grandi interrogativi filosofici e spirituali, dalla nostalgia per il ritorno a casa a quella per il Dio che non si capisce bene perché poi ci abbia creati. Occorrerebbe la sensibilità giusta per cogliere tutte le sfumature dello spirito e le nostalgie dell’anima. Ma queste restano sottotraccia per oltre due ore, incombenti in uno spettacolo dove non accade assolutamente niente. E allora tutto quell’andare e parlare magari è solo brusìo metafisico. Rumore di fondo di una umanità allo sbando che vaga nel vuoto.

Nei giorni successivi la Biennale ha poi ospitato la prima nazionale di “All inclusive” di Julian Hetzel, la prima di “Es sagt mir nichys, das sagenannte” di Sebastian Nubling, la prima italiana di “I’m Not Here Says the Void” ancora di Hetzel, la prima assoluta de “Il giardino dei ciliegi” di Alessandro Serra e la prima di “The Automated Sniper” ancora di Hetzel e “Die Hamletmaschine” di Sebastian Nubling. E’ stato consegnato il Leone d’oro alla carriera a Jenes Hillje e comunicato il nome delle vincitrici di Biennale College: Marina Badiluzzi, per la terza edizione Biennale College registi under 30. Caroline Baglioni è invece la vincitrice della Biennale College autori under 40. Il festival _ ha informato l’ufficio stampa _ ha registrato un incremento di pubblico pari al 16% rispetto allo scorso anno, con sale piene al 90% e un totale di 9 mila spettatori. Nelle due settimane di programmazione sono state presentati 28 spettacoli di cui 23 novità (due in prima europea e sei in prima assoluta).

Simona Senzaqua in “Nostalgia di Dio” di Luciana Calamaro autrice anche della regia (Fotografia di Guido Mencari)
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