Teatro
Quel Don Giovanni di un’altra generazione
Non posso negare una certa fascinazione per quegli artisti – registi e registe, per lo più, ma anche attori e attrici – che si pongono in maniera sfrontata, direi quasi spavalda di fronte ai classici. Scelgono con cura l’opera e mantengono un’attenzione, una cura, al dettato del testo, ai vincoli imposti dall’autore da regia vecchia maniera. Lo fronteggiano da pari a pari, senza timore di uscirne con le ossa rotte. E allora mi piace, ho un debole, per certo teatro che non si perita di mettersi a confronto con le famose pietre miliari, senza timor reverenziale o eccesso d’ossequi per il passato.
C’è poi un elemento ulteriore su cui riflettere. Qualche giorno fa sono andato in un piccolo cinema di Roma a vedere MyGeneration, un film documentario sulla Swinging London, ovvero sulla controcultura Cockney, narrato da un magistrale Michael Caine. Cosa lega le due cose? Provo a dirlo.
Di fatto, Caine evoca la grande mobilitazione giovanile (musicale, artistica, teatrale, della moda) dei primi anni Sessanta: una nuova generazione s’impose sulla scena, cambiò le regole del vivere comune, tra le mille resistenze e critiche ostili di chi li aveva preceduti. Fu un ribaltamento non solo “poetico”, ma concreto, sociale e politico, certo presessantottino. Allora, senza voler paragonare quel che accadde allora con quanto vediamo sui nostri palcoscenici, non possiamo non notare che c’è, di fatto, una nuova generazione di 40-50enni che sta cambiando le regole del gioco teatrale. Ciascuno a suo modo, per evocare Pirandello – Binasco, appunto, ma ovviamente anche Latella, Dante, Longhi, Sepe, Dini, Civica, Latini, Cirillo, Ferrini, Celestini, De Rosa, Lanera, Calamaro, Deflorian/Tagliarini, Arcuri, ancora e ancora ne potremmo citare e già nuovi se ne affacciano! – hanno finalmente preso posizione e parola. E hanno mutato l’alfabeto con cui parlare a teatro.
Non è l’ennesimo esempio di “entrismo” dei gruppi nella stabilità, come si è verificato in passato. Qui c’è un modo altro, di rapportarsi, come accennato, alla scena, ovvero al testo o all’autore, e al pubblico. Un pubblico da ritrovare e con cui parlare, sempre nella ricerca di una qualità, ossia senza (troppo) abbassare il livello della proposta. Ecco allora un teatro diretto, immediato, dai modi spicci, consapevole e complice. È un bene? Un male? Abbiamo un teatro sincronico al nostro tempo?
In quel documentario, si sente la voce di Paul McCartney dire, più o meno: «adesso siamo noi i classici”. Altra storia, certo, ma il messaggio mi sembra indicativo.
Tutto questo, come premessa necessaria per parlare del Don Giovanni di Molière, prodotto dal Teatro stabile di Torino con la regia di Valerio Binasco, che con questo lavoro si presenta quale nuovo “consulente artistico” del Nazionale piemontese dopo la bella direzione di Mario Martone.
Binasco è uno di quei registi della generazione di cui provo a dire.
Questo Don Giovanni, allora, è uno spettacolo di oggi, semplicemente. Valerio Binasco lo dichiara sin dalle note di regia: non ci sono “precedenti vincolanti”, ritroviamo l’opera oltre le sue super strutturate interpretazioni, oltre le teorie.
Sbroglia il testo con una traduzione agile, taglia qua e là (ad esempio la scena del creditore), non si dà pena del piano metafisico o puramente filosofico: starà allo spettatore, poi, semmai, trarre le conclusioni. E dunque firma uno spettacolo che ben si collocherebbe nella scia di certi allestimenti della Schaübhüne, così aspramente attuali. Ma ve lo immaginate possibile, ormai, un Molière preso sul serio, con i costumi secenteschi e le parrucchette giuste? Chi ci crederebbe più? Alla fine dei conti, anche Molière era un attore, uno “pratico”.
E, come già in precedenti prove, il regista cerca la complicità degli attori, non impone sue visioni destrutturanti o elucubrazioni concettuali. È proprio l’evidente presenza dell’attore, il punto di forza di questi allestimenti. I due protagonisti che non fanno una piega di fronte al peso delle battute.
Don Giovanni è un ottimo Gianluca Gobbi che ne fa un esuberante, violento, viziato cialtrone. Gaudente, ridondante, a modo suo seduttivo, forsennatamente a caccia di qualcosa. Procede come un tir, schiaccia a colpi di depravazione o direttamente a pugni chi incrocia. Gobbi è solido, notevole, pienamente primattore: forse usa un po’ troppo il “raspato” all’inizio, ma poi si modula bene voce e toni.
Ride, questo Don Giovanni ragazzone, vuol godere. Perché? Ha un sovraccarico di vita e di insoddisfazioni, forse. Oppure, come scrive Giorgio Agamben in uno dei suoi agili e profondissimi libretti, dedicato all’Avventura: «Amare significa “essere portati”, abbandonarsi all’avventura e all’evento senza riserve né scrupoli; e tuttavia, nell’atto stesso in cui ci abbandoniamo all’amore, sappiamo che qualcosa in noi resta indietro, in difetto. Eros è la potenza che, nell’avventura, costitutivamente la eccede, così come eccede e scavalca colui a cui essa avviene». Don Giovanni è la storia di un’Avventura? Ma no, qui sto facendo teoria, cosa che è contraria allo spirito di questo spettacolo, tanto più che tutto è stato scritto e detto a proposito di Don Giovanni.
Qua, dunque, abbiamo Stairway to heaven ad aprire le danze, evocando a mo’ di prologo il Burlador de Sevilla (by Tirso, recita una scritta in sovraimpressione sul velatino che copre la scena). Poi è una corsa verso la fine: un andare senza sosta di Don Giovanni e Sganarello. Il servo, si sa, è altrettanto importante: privato dallo sguardo critico di Sganarello, Don Giovanni non sarebbe nulla, se non un evanescente trombone. È il servo il primo spettatore, colui che svela commenta critica, e segue tutto. Ed è forse più cinico del padrone, con quella battuta feroce, sul finale, che tutto rimette a posto, in una dinamica squisitamente economica: “e la mia paga?”.
Sergio Romano, bravissimo, fa del suo Sganarello una figuretta beckettiana, come nel l’inizio, bello, del secondo atto, sotto un’enorme luna incombente( le scene sono di Guido Fiorato, le luci di Pasquale Mari), febbrile, suadente, sorprendente. Ham e Clov, questi due: sopravvissuti alle macerie del Novecento, Don Giovanni e Sganarello fanno teatro, giocano le parole, agiscono le parole in flussi di incontenibile, e alla fine inutile, vitalità.
Quando arriverà il famoso Commendatore, che altri non è che il padre – sono interpretati dallo stesso attore e bene è risolta la statua, con un tableaux vivant – non si apriranno le porte dell’inferno, ma sarà forse un riposo, un sonno, ovvero metter fine ai giochi anzitempo, lasciandosi cullare finalmente. Poca paura di morire, semplicemente l’ineluttabilità di una vita sprecata che va a finire.
Resta da dire del cast: si fanno apprezza il deciso e tagliente Fulvio Pepe come Don Carlos, Nicola Pannelli in più ruoli (in particolare nella struggente scena del povero che non vuole bestemmiare), l’energico Lucio De Francesco e il robusto Don Alonso di Vittorio Camarota. Forse tutti un po’ troppo e troppo spesso accovacciati o inginocchiati o seduti a terra.
Infine, le signore attrici. Buona la prova di Elena Gigliotti, come Charlotte e Marta Cortellazzo Wiel come Maturina: le contadinelle sono ragazze di un baraccio di provincia con le lucine a festa. Aspettavamo al varco, poi, come Donna Elvira, la giovane e talentuosa Giordana Faggiano, che è giovane e talentuosa, ma qui svela la sua acerba età. Binasco fa di Donna Elvira una fanciullina troppo appassionata: nella seconda apparizione, la donna sedotta da Don Giovanni appare scortata dai fratelli e recita, forzata e a memoria, quel che deve dire, poi riesplode di desiderio per l’amante, trascurando completamente il senso del testo. Purtroppo, a fronte di quelle parole, di quelle battute, non basta, e la scena perde peso e senso.
Allora ecco la questione: va bene che questa “My generation” sia disinvolta, anzi ci piace e piace spesso anche al pubblico. Tocca stare attenti, però, alle trappole di quei classiconi. Volentieri, loro, i classici sornioni, accettano la sfida. Ma son ostici da battere.
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