Religione

Il mondo morale di Romeo Castellucci

28 Gennaio 2015

Ci sono spettacoli che mi porto dietro per non averne scritto.

Di solito, almeno per me, funziona così: prima mi sbarazzo di uno spettacolo visto, scrivendone, meglio sto. E invece, in alcuni casi, per motivi mai troppo chiari, esito a recensire, a scrivere e mi porto appresso – i mistici direbbero “dentro” – quegli spettacoli, quelle suggestioni, quelle visioni. Allora mi ci arrovello: penso di sapere e non so, cerco di capire e non capisco.

Ogni giorno che passa, torna un’immagine che si fa nuova domanda, ovvero dubbio, interrogazione, perplessità. Allora grazie a quegli spettacoli – di cui rimangono bagliori, barlumi, immagini, sensazioni – si mettono in gioco le (poche) certezze che uno spettatore professionista, per quanto “sedicente”, può aver accumulato nel corso degli anni. Perché sarebbe troppo facile bollare il tutto con un “Non mi è piaciuto!”, e pensare ad altro. Ma non è così, non ci sono vie di fuga.

Con quel teatro, con certo teatro, continuiamo a fare i conti. Potrei fare molti esempi, in questo senso. Ma vorrei qui concentrarmi sul percorso recente di Romeo Castellucci.

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L’altro giorno, per caso, ho versato della varichina in casa, e subito è tornato prepotente il ricordo, la “sensazione” fisica di Uso umano di esseri umani, lo spettacolo che il regista ha fatto a Bologna, nell’aprile 2014, in occasione dell’omaggio della città al regista della compagnia Raffaello Sanzio, per il progetto “E la volpe disse al corvo”. Non ne avevo scritto a suo tempo, forse non lo avevo – e non l’ho – nemmeno capito davvero. In quell’occasione, le sale dell’ex ospedale dei Bastardini abbandonato, erano invase, pervase, dall’odore di varichina, versata ovunque, mentre degli attori – in una tuta di quelle bianche, antisettiche, con maschere antigas – muovevano un’enorme ruota, su cui era inciso lo schema della Lingua Generalissima. Si tratta di una lingua immaginifica, scarnificata, ridotta a cinque parole, che la Societas Raffaello Sanzio giovanissima aveva inventato a metà degli anni Ottanta.

Quello spettacolo enigmatico, addirittura quasi esoterico, mi ha segnato: era impregnato di varichina, di decomposizione, di scomposizione. Di morte futura, ancorché simbolica, e di nuova vita. Avrei voluto reagire subito, da critico, provare a raccontare e scandagliare, e invece me lo sono messo addosso, fardello irrisolto, che non trova risposta definitiva nemmeno ora.

Così come è accaduto per Go down, Moses, lo spettacolo che abbiamo visto recentemente al Teatro Argentina, e che mi ha lasciato perplesso e attonito. Ho letto tutte le recensioni uscite, le analisi di colleghi giovani e meno giovani, ritrovandomi in molte di esse.

Però, anche in questo caso, passate ormai settimane dal debutto, mi ci arrovello, mi chiedo cosa, di quel magma di immagini e suoni, riverberi ancora in me. Parlo di me, con la pretesa – certo eccessiva – che simili dubbi attanaglino anche altri, spettatori di quel debutto romano. Perché allora vale la pena domandarsi cosa sia e cosa valga il Teatro, quello con la T maiuscola, quel “gioco” strano che ci portiamo dietro dall’Atene di Pericle in poi. Di fronte a certe opere, a certi universi che si fanno scena, mi capita anche di prescindere dall’esito, e di provare a decifrare cosa l’artista abbia voluto dirci. Insomma, di chiedermi che mondo (futuro, futuribile) e che umanità quell’artista ci sta mostrando.

Gli artisti – non tutti – sono avanti dieci chilometri rispetto a noi critici e dovrebbero indicarci la via, tratteggiare nuove mappe per dare visioni di futuro: “lanciano le parole al cielo”, diceva più o meno un critico come Cesare Garboli, e “noi critici le riportiamo giù”.

Allora cosa, al di là del dato meramente spettacolare, ci racconta Castellucci in Go down, Moses?

Non so. Durante lo spettacolo pensavo ai grandi “affreschi” che usava la chiesa nel medioevo per rappresentare; pensavo alle sacre rappresentazioni; pensavo agli Auto Sacramentales, ai Mystery e Morality plays: insomma, a tutte quelle forme di rappresentazione medioevali, fortemente simboliche e allusive, fatte spesso di tableaux vivant e poco testo, che la Chiesa metteva in campo per mostrare, indottrinare e formare. In buona sostanza, Castellucci – prescindendo dal messaggio strettamente religioso – mette in sequenza una serie di quadri, di scene aperte che hanno valore morale. Intendiamoci: morale non vuol dire né cattolico né tantomeno bigotto. Semmai religioso, ma di quella religiosità che faceva delle tragedie greche un rito per Dioniso. Nella successione di situazioni degli spettacoli di Romeo Castellucci, si può evocare una “morale”, vieppiù laica, che affonda nelle contraddizioni della natura umana.

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Ciascuno spettatore, poi, decodificherà la costellazione di immagini a seconda della propria sensibilità e profondità. Castellucci non indottrina, non trasmette Verità, semmai suggerisce, mostra, intercetta flussi di immagini che riverberano, fanno esplodere l’immaginario collettivo. “Formule del Pathos”, avrebbe detto Warburg, ossia tracce del nostro essere che si concretizzano in quadri simbolici, in misteri della fede per il rito teatrale.

Allora Go down Moses, che ha aperto il 2015 del Teatro di Roma diretto da Antonio Calbi, è stato un appuntamento su cui continuo a riflettere.

La sera del debutto, complice qualche inghippo tecnico, il pubblico ha accolto freddamente il lavoro. Poi le cose si sono sciolte e migliorate. In ogni caso, Castellucci ha innestato la possibilità di una riflessione.

Per quel che mi riguarda, vi ho trovato un percorso attraverso la figura femminile e l’abbandono: la figura biblica di Mosè è solo un pretesto, lo dichiara anche il regista, per indagare cosa vi è prima e dopo. La donna che partorisce sola in un bagno, all’inizio dello spettacolo; la donna che si sottopone quieta a una Tac e che è centro e fulcro di ogni narrazione; la donna “primitiva” che apre all’arte fermando con il sangue la propria impronta sulla parete di una grotta. La stessa che traccerà un grande SOS scritto con il sangue, invocazione e appello capace di travalicare i tempi, segno evocativo pari al monolite del 2001 di Kubrick.

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Sono loro, queste figure femminili che attraversano i secoli, le culture, a segnare l’identità, ossia il destino dell’umanità. Non tanto Mosè, con la sua retorica, la sua barbona e le tavole dei comandamenti, quanto la madre, che l’abbandona affinché si compia la storia: ovvero il principio femminile che viene prima della Legge del Padre.

È lì, la domanda: attorno al ruolo di una Donna che può (ri)scrivere la storia. Ed ecco spiegato il titolo: non tanto il gospel cui rimanda direttamente, quanto un invito a smetterla con il narcisismo maschile, con il patriarcato dominante, con il maschile misura di tutte le cose. Potrei star qua a descrivervi scena per scena il lavoro, tutti i “quadri” che Castellucci mette in sequenza – prescindendo quasi da un’organica drammaturgia – per mostrare quelle che chiamerei ipotesi di pensiero. Quelle “sacre” rappresentazioni medioevali di cui si diceva: sta a noi, dare valore e senso a quelle immagini, che appaiono anche semplici o addirittura semplicistiche. Ciascuno per sé, abbandonato al libero arbitrio: liberi di rifiutarle o di portarsele addosso. Danze macabre, allegorie della vita, della morte, del futuro o dell’arte: il dramma dell’umanità, sembra dire Castellucci, ruota ancora e sempre attorno agli stessi temi. È del nostro destino che si parla, dell’essere padri e madri, dell’essere soli a questo mondo. Nelle caverne primitive o nella società scientifica e ospedalizzata di oggi, dai primordi del linguaggio alle parole della bibbia fino alle volute verbali della comunicazione odierna: il bisogno d’amore, la paura dell’abbandono, la necessità gioiosa di procreare non mutano. In uno spettacolo certo “minore” rispetto all’intensa attività registica di Castellucci, vi è comunque il segno, la graffiante zampata di un artista che incide il mondo.

(le immagini di questo articolo sono di Guido Mencari)

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