Teatro

Utoya: qualcuno ricorda dov’è?

27 Ottobre 2015

Proprio quando uno va in televisione brandendo un pistolone – se n’è parlato sin troppo di quel gesto imbecille – e negli Usa qualcuno prova a limitare lo strapotere economico-politico dei fabbricanti d’armi, arriva in scena un testo che fotografa lucidamente alcune delle contraddizioni di quella che è ormai una sindrome, la conclamata paura dell’Altro – chiunque sia – con istigazione alla caccia all’islamico (ovviamente terrorista) o all’immigrato quale unica possibile soluzione a tutti i mali del nostro quieto vivere.

Il testo di cui parliamo è Utoya, scritto con mano garbata e decisa da Edoardo Erba, messo in scena con lucidità da Serena Sinigaglia e interpretato dagli ottimi Arianna Scommegna e Mattia Fabris.

Utoya è il nome dell’isola della Norvegia dove, nel 2011, il neonazista Anders Breivik uccise 69 ragazzi, e ne ferì 110, che erano nel campus organizzato dal Partito Laburista (di sinistra). Prima c’era stata la bomba a Oslo, con 8 morti, poi quella strage perpetrata lucidamente, con fanatica razionalità: Breivik è stato condannato a 21 anni di carcere, ma di quell’eccidio già in pochi – almeno in Italia – si ricordano.

Il testo è interessante, perché parte dal contesto, dal corollario: non solo ricostruisce  fatti per lacerti e segmenti, ma li evoca attraverso testimonianze più o meno dirette, frutto però di elaborazione drammaturgica, non di testimonianza. Non è, insomma, teatro-cronaca, ma una creazione che inchioda la cronaca alle sue responsabilità evidenti.

In scena, i due attori, davvero bravissimi nel gestire slanci e tensioni, cambiando solo pochi elementi – occhiali, una giacca – danno corpo e voce a tre coppie, coinvolte a diversi livelli nel massacro. Due genitori, colti e un po’ snob; i poliziotti del luogo, che potevano intervenire e non sono intervenuti; e infine i contadini vicini di casa di Breivik.

Arianna Scommegna e Mattia Fabris
Arianna Scommegna e Mattia Fabris

Dunque, tutto è evocato, raccontato per interposta persona, appreso dal pubblico quasi assieme ai personaggi. Le sequenze si susseguono a ritmo incalzante: dapprima situazioni quotidiane, di semplice vita, poi l’innesco di paure, ipotesi, dubbi. Tutti, subito, danno la colpa agli islamici, attaccano i terroristi, gli “invasori”: siamo in guerra, dice qualcuno.

Poi, lentamente, si scopre la verità, che è “uno di noi”.

Tra pezzi di tronchi d’albero e vetri rotti che fanno riflessi come d’acqua (le scene freddamente nordiche sono di Maria Spazzi), Utoya apre proprio a questo, spinge a interrogarsi sul senso di comunità, sull’essere dentro o fuori il “viver civile”. La Norvegia, si sa, è terra promessa per tanti che fuggono dal Sud del Mondo. E questo fa paura, addirittura terrore: ovunque, non solo in Norvegia, la politica nazionalista, populista, da sempre cavalca la forma più bieca di nazionalismo e gioca con il concetto d’identità una partita davvero mortale. Su questi temi, la destra vince in Ungheria e ora in Polonia, cresce nei Paesi baltici, trova sponda in Italia nelle minchiate leghiste, esalta l’ottusità neofascista e neo nazista di tanti gruppi e gruppuscoli anche da noi.

Utoya, la scena di Maria Spazzi
Utoya, la scena di Maria Spazzi

Il testo di Erba, scritto con la consulenza di Luca Mariani (autore de Il silenzio sugli innocenti, Ediesse Editore) è portato bene in scena nella nitida visione di Sinigaglia – così lineare, tagliente, non invasiva – e affronta tutto ciò trasversalmente, non di petto: semplicemente mostra i presupposti o i contesti del vivere in quel sistema di pensiero di cui Breivik non è ideologo, ma quasi frutto, prodotto, conseguenza. Allora fa quasi tenerezza la “professione di socialismo” di uno dei personaggi, legato a un’ideale che fu, a un sogno che fu – il socialismo, molto più del tetro comunismo – di libertà e uguaglianza, di speranza e di cambiamento. La società non migliora, pare dirci Erba: e l’isola di Utoya è ormai il monumento della regressione in atto. Il guaio, ulteriore, è che quel monumento – nel nostro belpaese senza memoria – rischia di non assolvere la sua funzione e di non far ricordare più nulla a nessuno.

 

Lo spettacolo nasce dal coraggioso Teatro di Ringhiera-Atir, di cui tra i fondatori sono Scommegna, Fabris e Sinigaglia: spazio della periferia milanese che non ha mai fatto un passo indietro rispetto a un’idea di teatro “civile”, militante, attivo sul territorio. Ma noi l’abbiamo visto nello storico spazio Magnolfi, a Prato. In questo caso, infatti, Atir ha trovato la produzione del Teatro Metastasio di Prato, che proprio in questi giorni vede la nomina di un nuovo direttore. C’è sempre un clima turbolento nella città toscana che macina direttori a spron battuto (ne sepeva qualcosa anche Luca Ronconi).

Salutato dunque Paolo Magelli, cui vogliamo e dobbiamo riconoscere un ottimo lavoro fatto in questi anni – in termini di programmazione, di apertura alla drammaturgia, di creazione di una compagnia stabile e altro – torna alla guida del Teatro ex-Stabile di Toscana e ora TRIC, ovvero di Rilevante Interesse culturale, un dinamico organizzatore come Franco D’Ippolito. Già co-direttore a Prato con Federico Tiezzi, D’Ippolito porta in dote una notevole esperienza, maturata recentemente in Puglia, dove ha contribuito non poco alla creazione del sistema teatrale regionale. A Franco D’Ippolito un augurio di buon lavoro: vediamo cosa farà del Metastasio.

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