Teatro

Ubu in carcere

2 Febbraio 2018

Qualche tempo fa, ho fatto una cosa che non si deve fare. Sono andato a cercare su Google il nome di un attore. Niente di strano, se non fosse che l’attore in questione è un ex detenuto. È un bravo attore, ormai lavora tanto, eppure è – ancora – un “ex detenuto”, nonostante abbia scontato la sua pena e pagato il suo debito.

Sono andato a cercare il suo nome mosso dalla solita, morbosetta, curiosità: che avrà mai combinato?

Penso sia anche questa sorta di curiosità a rendere gli attori ex detenuti perennemente degli “ex detenuti”, ossia persone inchiodate al proprio passato. Eppure, qualcosa è successo, qualcosa sta cambiando.

Perché Google, ad esempio, nella solerte e occhiuta ottusità dell’algoritmo, ha certo sciorinato le notizie della cronaca nera, ma, subito dopo, ha infilato altre notizie tutte, eminentemente, stupendamente, teatrali o cinematografiche. Insomma, nel volgere di poche righe c’era non solo la storia, il passato cupo di quell’uomo, ma anche il presente e, forse, il futuro. Dunque, è stato bello scorrere le notizie d’agenzia di allora e poi trovare il profilo imdb di oggi. Difficile spiegare la sensazione che ho provato, ma di fatto, in quella videata, c’era riassunta ed evidenziata tutta l’efficacia del teatro, tutta l’importanza di una pratica sociale d’arte. Capita una volta su cento, ma capita. E vale molto più di tante parole, saggi, inchieste, recensioni, teorie, elucubrazioni.

Ripensavo a tutto questo assistendo frastornato e quasi ipnotizzato alla bellissima versione di Ubu Re, di Alfred Jarry, che il Teatro dei Venti di Modena ha fatto con i detenuti attori delle case circondariali di Modena e Castelfranco Emilia, con la regia e drammaturgia di Stefano Tè.

Padre e Madre Ubu, foto di Chiara Ferrin

Da tempo, Teatro dei Venti opera con successo in diverse situazioni di disagio, ma con questo spettacolo, che mette assieme attori professionisti della compagnia con i detenuti attori, tocca forse un apice artistico e creativo che premia il lungo lavoro fatto.

Ubu Re è ridotto a un mucchietto di frasi, a un distillato di situazioni che sono condensa e precipitato, a un’ombra che tiene sospesa la narrazione, tra la farsa iniziale e il lugubre rimando al Macbeth che fu riferimento per il giovane Jarry.

Nell’allestimento rimane, infatti, la curiosa goliardia di fondo, sottratta però ai ritmi indiavolati della pochade o alle liturgiche fanfaronate verbali dei protagonisti. È, come dire, una tragedia impossibile o una commedia talmente grottesca da suonare più macabra della vita, questo Ubu Re elaborato tra le mura del carcere.

E, fortunatamente, non ci sono gli ormai inevitabili rimandi alle varie Gomorre o Suburre – il rischio è dietro l’angolo: seppure nell’immaginario dei costumi non manchi qualche giubbotto di pelle, e l’evidenza fisica degli attori – con corredo di tatuaggi – potrebbe far andare altrove, qua tutto è in sottrazione, in penombra visiva e morale, in un silenzio trattenuto, rigoroso, in cui ogni gesto è millimetrica e netta, nitida esecuzione.

Foto di Chiara Ferrin

Quel che colpisce è proprio il piano coreografico, che si dipana sull’impianto scenico, più che mai costruttivista, essenziale e scarno com’è: sono situazioni, chiamatele scene o numeri se volete, in cui sembra più evocata che non interpretata la resistibile ascesa degli Ubu.

Il tutto con una violenza sottesa, nascosta, incandescente come brace, terreno fertile per un essenziale Padre Ubu (Antonio Santangelo) e una Mere Ubu in tacchi altissimi (Oksana Casolari) vera professionista della morte, chiamata a gestire il lento finale-rituale, che è lavaggio e sepoltura di tutti gli sgherri della storia.

E se lascia senza fiato l’apparizione iniziale dei soldati, che emergono a sorpresa dall’oscurità, sotto il tavolaccio, per correre a mangiare sozzi spaghetti premio offerti dopo l’uccisione del re Venceslao (Davide Filippi), e a omaggiare Papa Ubu salito al potere, poi lo spettacolo vive di un ritmo sempre sul filo del rasoio, intenso e incombente. Qualcosa è sempre lì lì per esplodere, per travolgere il pubblico che si fronteggia in due gradinate separate dallo spazio scenico.

Non c’è niente da ridere in questo Ubu Re, non ci sono parodie o apologie di novelli boss a caccia di potere: semmai scontri fisici, nervosi corpo a corpo (come con lo zar di Russia), o bugie, tradimenti, coltellate, colpi a sorpresa. E una enorme, amara, dolorosa, incredibile, serietà che sembra rassegnazione, ineluttabilità, consapevole e dolente patimento.

Foto di Chiara Ferrin

Lo spettacolo di Teatro dei Venti prende alla gola, blocca le spalle, stringe in un grumo polveroso le sensazioni, sfugge alle idee, si libera dai commenti. È là, imponente come quel catafalco scenico che è una macchina celibe a sovrastare tutto e tutti. Sopravvive solo un ragazzino, il figlio del re spodestato (Diego Di Lascio), armato di pistola e pronto a usarla contro chiunque: non ci sono, insomma, molte speranze per il futuro.

Il progetto, realizzato in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, si avvale del sostegno della Regione Emilia-Romagna e del contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. In scena, oltre a quelli già citati, sono Fonci Ahmetovic, Alessio Boni, Fabio De Nardi, Lucio Improta, Daniele Novelli, Giuseppe Pacifico, M. Saieva, Sejfuli Nadir, Felix Tehe Bly e Francesca Figini nel ruolo della Regina.

Credo sia uno dei migliori Ubu Re della mia esperienza di spettatore: dopo l’indimenticabile percorso fatto dal Teatro delle Albe, dopo il divertente e rutilante allestimento di Declan Donnelan, dopo l’intelligente versione di Roberto Latini – tanto per citarne alcune recenti – ecco questo elegante e austero Ubu messo in scena da una manciata di carcerati, a Modena. L’innovazione, a teatro, passa anche da qui.

In scena ancora qualche giorno a Modena. Per info: www.teatrodeiventi.it

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