Teatro
Suoni, luci e installazioni. Il Piccolo Principe di Genovese arriva a Milano
A ottant’anni dalla sua pubblicazione, con la produzione di Razmataz Live, il regista Stefano Genovese porta in scena Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Uno show che mixa linguaggi diversi e pensato per tutte le età.
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«Tutti gli adulti sono stati bambini una volta. Ma pochi di essi se ne ricordano». Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry è la storia che tutti conoscono ma che nessuno ricorda, come se in fondo quel che afferma l’autore di uno dei libri più letti e tradotti in tutto il mondo corrisponda alla verità. Molti adulti dimenticano le cose importanti, quelle imparate da piccoli.
Il romanzo racconta l’incontro tra un aviatore, costretto da un guasto ad un atterraggio di fortuna nel deserto, e un ragazzino alquanto strano, anche lui nel deserto, che gli chiede di disegnargli una pecora. Il bambino viene dallo spazio e ha abbandonato il suo piccolo pianeta perchè si sentiva troppo solo lassù: unica sua compagna era una “rosa”.
Dopo il successo del debutto nazionale a Roma e delle tappe di Bologna, Torino e Firenze, con oltre 41.000 biglietti venduti lo spettacolo conclude la tournée italiana a Milano. Il Piccolo Principe sarà in scena da giovedì 23 marzo a domenica 2 aprile al Teatro Repower di Milano, per poi approdare in Francia il prossimo autunno e ad Amsterdam, Berlino, Dublino, Lisbona e Madrid nel 2024.
Quando hai cominciato a lavorare a Il Piccolo Principe?
«Ho iniziato a lavorare allo spettacolo quest’estate, a giugno, capendo come metterlo in scena, come raccontare la storia… È nato tutto insieme al produttore che mi ha chiesto un tipo di spettacolo che avesse delle caratteristiche, per un mercato, un pubblico particolare. Io quest’idea di metterlo in scena l’avevo da tantissimi anni ed era uno di quei progetti che aspettavano il momento giusto per uscire, così gli ho proposto di fare Il Piccolo Principe e così sullo stimolo di una ricerca, di un tipo di spettacolo, è venuto fuori quello che vedrete in scena».
Cos’ha di speciale per te il testo di Antoine de Saint-Exupéry?
«È un testo sacro e non lo dico io ma il fatto che sia il secondo libro più venduto dopo la Bibbia. È un testo importante, anche nella sua doppia faccia: sia per lettura da ragazzi che per la lettura da adulti».
A chi si rivolge lo spettacolo?
«Questo spettacolo si rivolge a tutti. Non è uno spettacolo per bambini, perché non pensato solo per loro. I bambini non vanno a teatro da soli, fare uno spettacolo per bambini per me vuol dire fare uno spettacolo che piaccia sia ai bambini che agli adulti, quindi non con quei linguaggi alla “Peppa Pig” per intenderci. Questo è uno spettacolo che può piacere a tutti. I bambini magari non conoscono tutti il Piccolo Principe, a meno che non ne abbiano parlat in o con i genitori o a scuola e gli adulti invece lo conoscono e lo propongono loro ai loro figli. Chi invece non ha figli invece può apprezzarlo perché è una di quelle letture che hai fatto da bambino e ti è rimasta in qualche modo dentro, ti piaceva la storia e quindi sei affascinato dal risentirla. Anche perché peraltro è un libro che in tanti conoscono ma nessuno ricorda. La prevendita per la prima romana è andata molto bene perché c’è molto interesse».
Il tuo Piccolo Principe è un mix tra prosa, musical, nouveau cirque e installazioni. Che tipo di teatro è?
«Questa è proprio una delle ricchezze di produzione, facciamo uno spettacolo che arrivi al pubblico come la storia arriva al cuore. E e la mia idea è arrivare al cuore utilizzando tutti i sensi e quindi anche tutti i linguaggi teatrali. Non è un musical, non è uno spettacolo di prosa, non è uno spettacolo circense, però ha un po ‘di tutte queste cose e quando parlo di sensi parlo proprio dei sensi fisici. Si ascolta perché molta musica, si vede e quindi si guarda perché ci sono molte scenografie e costumi impattanti, tante scene visive, luci e l’occhio ne risulta appagato. Si annusa anche e non voglio dire altro. Si sente anche sulla pelle e anche questo è meglio scoprirlo dal vivo. È veramente un’idea di messa in scena che usa tutti i linguaggi ma nell’ottica di non fare un varietà perché non lo è. Ci sono anche dei numeri circensi ma non sono fini a se stessi. Ho provato in tutti i modi a non tradire i personaggi del romanzo e spero di esserci riuscito ma ho sentito l’esigenza che si esprimessero attraverso diversi linguaggi».
Parliamo delle musiche. Cosa dobbiamo aspettarci?
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«I testi delle canzoni sono originali. Sono arrangiamenti di canzoni estremamente famose che tutti conoscono. I testi però non sono usati per dialogare come nei musical, le canzoni sono state scelte proprio per quello che raccontano in originale e vengono usate per esprimere quello che prova in quel momento il personaggio e sono così così quasi originali che facciamo anche nella lingua d’origine».
Questo modo di mettere in scena i testi quanto si trova in Italia e quanto all’estero?
«È un esperimento anche per me, ho visto molti spettacoli di nouveau cirque che mettono in scena romanzi, spettacoli di danza, degli spettacoli di prosa, il musical, che ho fatto. Però spettacoli che usassero contemporaneamente tutti linguaggi non fini a se stessi, ma per raccontare una storia non ne ho mai visti. Quindi speriamo che funzioni, lo sapremo solo con il pubblico. Spero che sia uno spettacolo che chiami più pubblico possibile e ne resti soddisfatto».
«In Italia c’è un pubblico che ama il musical, anche se numericamente inferiore rispetto che all’estero, poi c’è chi invece va solo a vedere la prosa perché il resto non gli piace o non ha mai avuto occasione per vedere cose più approfondite. Ovviamente facendo questo lavoro, ho visto tanti tipi di spettacoli all’estero e spesso se non si ha l’occasione i musical li conosciamo solo in una versione un pò italiana, diversa da quelli che vanno in scena a Londra o a New York. Poi è una questione di gusti. Anche chi ama la lirica magari và in teatro a vedere solo quella».
A New York il tuo “Baaahhh!!!” è stato selezionato dal Fringe Festival. Com’è stato lavorare all’estero?
«La produzione era molto piccola, le differenze le fa sia il tipo di produzione che il pubblico che incontri. Parliamo di teatri diversi, con trecento posti. Ho fatto un’altra esperienza importante, a Seul, in Corea, dove c’è tutt’altro tipo di pubblico, diverso dall’Italia, dall’America. Era una produzione enorme, da cinque milioni di euro, con un teatro da tremila posti, con le musiche di Ennio Morricone. Quindi dipende tutto dallo spettacolo che vai a fare, dalla produzione e poi dal pubblico».
In Italia com’è lavorare in ambito teatrale? Qual è la situazione?
«Ci sarebbero moltissime cose da dire. La prima è che il teatro non è un business, o è una macchina culturale quindi è totalmente sovvenzionata nei teatri diciamo pubblici, oppure è privato come Il Piccolo Principe in cui c’è produttore privato che ci mette i soldi e gli unici incassi che ha sono quelli dei biglietti e non ha fondi dallo Stato. Questo comporta tutta una serie di scelte e per quanto riguarda registi, attori e un po’ visto come un hobby. In Francia, per esempio, anche se non lavori per realtà nazionali hai spesso diritto alla continuità dello stipendio. Io ho iniziato a giugno il lavoro di regia. Qui l’ottanta per cento del mio lavoro non è considerato come tale. Il mio lavoro per lo Stato o per la produzione corrisponde al mese di prove. In realtà prima ci sono stati sei mesi di riunioni, incontri, studi, ricerca, c’è un grande lavoro nella parte di regia in pre-produzione ed è il più grosso».
«Ci tengo a dire una cosa. Io faccio parte del collettivo di registi R.A.C., l’unico in Italia, ed è venuto fuori che nel contratto collettivo nazionale per i lavoratori dello spettacolo, che è quello che tutela tutti, la figura del regista non esiste, pertanto non è tutelata, non c’è un minimo sindacale. Ogni regista deve fare il proprio accordo direttamente con il produttore. Inoltre la regia non è tutelata dalla SIAE. Puoi depositare le coreografie ma i diritti di regia non esistono. Allora molti registi sono costretti a depositare un adattamento ma come se avessero tradotto un testo originale ma mai come autori. Questa è un’altra stortura. Il regista inoltre spesso deve trattare il cachet con il direttore artistico del teatro, con il sovrintendente nel caso dei teatri pubblici, senza essere a conoscenza del budget disponibile per l’allestimento. Non c’è un’indicazione di massima come nel cinema. Il teatro in Italia non è un’industria tutelata in questo senso, perchè non è vista come un’industria. Non ci sono produttori che vanno nei teatri a scoprire giovani o meno giovani registi, io ho cinquant’anni e sono considerato ancora un giovane regista».
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Stefano Genovese – Regia
Stefano Genovese si avvicina al teatro attraverso la scrittura realizzando testi che mette in scena in Italia e all’estero, nonché adattando e traducendo produzioni anglosassoni. Tra i lavori teatrali più rilevanti si segnalano l’adattamento per il teatro del film “The Mission” (2011), il grande classico di Broadway “Gypsy” (2013), il musical tratto da “Ghost” (2014), l’irriverente “Avenue Q” (2009), la pièce bulgara “Baaahhh!!!” (2007), selezionata dal Fringe Festival di New York, e lo spettacolo “L’altra parte di Ron” (2009), di cui è anche autore.
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