Teatro
Santarcangelo dei Teatri, un Fantastico Mutante
A Santarcangelo dei teatri il futuro è già arrivato: mutante e cibernetico. Fotografia fluttuante di un domani che sin d’ora si nutre di immaginari letterari, cinematografici e fumettistici che ridefiniscono lo spazio in cui viviamo e quello di chi ci sta accanto. Il motto della edizione del cinquantennale appena conclusasi, “Santarcangelo 2050”, campeggiando nei manifesti e facendo capolino in T shirts e cartoline, addirittura dipinto sull’asfalto all’ingresso delle locations, proietta verso un domani di cui abbiamo paura. Sarà la peste pandemica, oppure le bolle impazzite di calore esplose di recente sui cieli di Canada e America, provocando incendi e vittime, oppure le bombe d’acqua che in una notte hanno cancellato villaggi interi in Germania, Belgio e Olanda a dirci che il clima è impazzito e la natura si sta prendendo la sua rivincita sull’uomo, lenta e crudele. Quanto durerà? Cosa accadrà ancora?
Ci sarà spazio per futuri mutanti in un pianeta sull’orlo dell’abisso?
Per Bruno Latour _ come ha segnalato Giovanni Boccia Artieri, presidente del festival nella sua presentazione_ il senso di vivere nell’epoca dell’Antropocene è “che tutti gli agenti condividono lo stesso destino mutevole, un destino che non può essere seguito, documentato, raccontato e rappresentato utilizzando una delle vecchie caratteristiche associate alla soggettività e all’oggettività. Lontani dal provare a “riconciliare” o “mescolare natura e società, l’obiettivo politicamente cruciale è al contrario la “distribuzione dell’agency” ( intesa come “potenza d’agire” ndr) il più lontano e nei modi più “differenziati” possibile”.
Insomma il variare dei tempi impone cambi di passo, sguardo attento e capacità di agire tale che, legando assieme natura e cultura, modifichi le vecchie abitudini sperimentando inediti sistemi di sopravvivenza. Cambiare pelle, cioè mutare. Diventare “shapeshifter”. O “mutaforma” come li hanno definiti Daniela Nicolò e Enrico Casagrande di Motus, direttori artistici di un festival curato con amore: edizione robusta e di tante sfaccettature che nei fatti ha rappresentato il grande ritorno del teatro.
Dicono i Motus che “non si conoscono bene le origini dei “mutaforma”, forse un tempo erano semplici individui in simbiosi con la natura. Per alcuni sono abomini e per questo visti come portatori di sfortuna, streghe e mostri, oppure esseri con un dono magnifico. Non hanno il senso di appartenenza ad un branco, o ad una specifica razza, pertanto non sono organizzati secondo gerarchie o classi, ma sono liberi e indipendenti e possono transitare fluidamente tra i generi”.
Così è venuto il tempo di guardare indietro riflettendo sulla storia anche recente. “Con umore altalenante fra disperazione e speranza, o meglio “Hope in the darkness” come ricordano ancora i Motus richiamando un illuminante libro di Rebecca Solnit.
A dare un senso non solo formale a queste intuizioni che sono politiche e culturali, all’interno del cartellone della rassegna è stato soprattutto uno spettacolo ad alta intensità, inquietante e rivelatore come “Metamorphoses”, scritto da Manuela Infante e Michael De Cock, prodotto dal Kvs di Bruxelles e diretto dalla regista e drammaturga cilena, autrice di un capolavoro come “Estado vegetal” presentato due anni fa alla Biennale guidata da Antonio Latella. Uno spettacolo avvolgente di teatro post antropocentrico dalla parte delle piante. In questo nuovo allestimento, prendendo le mosse dal poema omonimo di Ovidio Publio Nasone, le “Metamorfosi” vengono aggiornate al contemporaneo con una lettura inconsueta che mette in risalto gli aspetti violenti e autoritari della civiltà classica romana. Focalizzandosi sulle fonti delle relazioni tra umano e non umano emerge infatti il carattere maschilista che sta alle radici della nascita della cultura occidentale.
E’ un interessante modello di melodramma contemporaneo quello che Infante costruisce in scena allineando sullo stesso piano musica e teatro. Azione e ricerca sonora con la musica e le manipolazioni delle voci in diretta a cura dello stesso compositore e sound designer Diego Noguera, comprimario a tutti gli effetti dell’opera rappresentata in notturna nello spazio all’aperto del parco Baden Powell, un pratone nella periferia del borgo, dove un’ora prima le cicale avevano smesso di cantare e l’umidità regalava piccanti effluvi erbacei.
Nella trama la regista mette in collegamento il presente con un passato rarefatto nel mito proiettandolo in un evo futuro distopico e tinto di noir. In questa cornice le “Metamorfosi” ovidiane _ senza peraltro perdere il loro fascino di opera criptica che valse al poeta l’allontanamento da Roma per decisione di Augusto _ sono rivelate nella loro intima struttura narrativa. Riprese e agite in scena per sottrazione: all’acting dei performer (Hannah Berrada, Luna De Boos, Jurgen Delnaet) corrisponde, e in alcuni casi sovrasta, un teatrale gioco di incastri sonori: un fiume addirittura, compatto e punteggiato da noise e loop che lasciano talvolta spazio a improvvise oasi di lirismo fatte di cantate acerbe e compassionevoli melodie.
Sul palcoscenico il bosco è una selva di aste nere di microfoni, ora rami spezzati o alberi in movimento dentro foreste avvolte da netti chiaroscuri. Bui profondi e luci sfocate. Aste che chiudono in gabbia ninfe in fuga dagli Dei, da Giove ad Apollo, che vanno a caccia di sesso violento. Dei che sono fotocopie perfette di uomini, stupratori e dominatori del tempo classico come del nostro presente, determinati e brutali nell’imporre il proprio bastone di comando. Tanti e diversi i casi. Sotto le vesti dei versi poetici ovidiani si celano infatti i drammi di donne che perdono la libertà per essere tramutate in qualcosa di non umano in conseguenza di una serie di stupri. Nel secondo libro si narra ad esempio di come Giove prese con la forza la ninfa Callisto. Una volta ingravidata questa fu cacciata via dalla corte di Diana e mutata in orsa da una furente Giunone. Dafne invece, nel libro primo, inseguita da un invaghito Apollo è trasformata in alloro per non cadere preda del dio. Un’altra ninfa, Siringa, in fuga da Pan, figlio di Mercurio giunta in una palude invocò le Naiadi che la mutarono in canne. Pan si impossessò di quelle canne che, mosse dal vento producevano un suono armonioso e costruì uno strumento musicale. Emblematico il racconto della dea Diana che, scorta mentre si bagnava dal cacciatore Atteone, per vendicarsi dell’oltraggio gli gettò dell’acqua trasformandolo in cervo. Atteone finirà sbranato dai suoi stessi cani. Ma tra le tante, la più crudele è quella in cui i protagonisti sono degli esseri umani: Tereo, Procne e Filomela. Possente il racconto che ne fa Ovidio nel sesto libro. Procne coniugata da cinque anni con Tereo dal quale ha anche un figlio, Iti, supplica il marito di andare a prendere ad Atene la sorella Filomela di cui sente la mancanza. Tereo va ma al rientro stupra la sorella e le mozza la lingua affinché non possa denunciarlo. La donna però riesce ad inviare un messaggio a Procne che per vendicarsi ucciderà il figlio dandolo in pasto al padre. Mentre le due donne scappano inseguite da Tereo verranno cambiati in uccelli: Filomela in usignolo, Procne in rondine e Tereo in upupa. Questa storia, particolarmente significativa, allude alla perdita della parola.
Tutte le vittime di stupro, o mutate in qualcosa di non umano, nell’opera di Ovidio non riescono più a proferire parola emettendo solo suoni incomprensibili. La perdita del linguaggio è la più terribile privazione: il segno tangibile di esclusione dall’umanità. Ecco quindi l’infrangersi di quei suoni nell’ambiente circostante: rimbalzano sulle rocce, sfumano perdendosi nell’aria. Anche nei miti descritti da Ovidio questo evento segna il confine tra umano e non umano. In “Metamorphoses” curato da Infante quei suoni diventano così elementi centrali del melodramma. Chiave di accesso per superare la linea di demarcazione tra il mondo degli umani e di chi viene cacciato si trasforma in tassello di costruzione per un inedito linguaggio. Speakin in tongues. Cioè glossolalia. Parole che all’ascolto sembrano non avere un senso sono invece parte di un linguaggio diverso e poco comprensibile che in “Metamorphoses” con la mano esperta di Noguera vengono tradotte in vocalizzi distorti, rallentati o accelerati con gli acuti accentuati, vocaboli di una nuova lingua in progress. La Enciclopedia Treccani sintetizza tutto questo come un “fenomeno normale” frutto di “fonemi articolati in forma musicale e tali quindi da esprimere, proprio per la musicalità che generano, degli stati d’animo”. Anche stavolta la regista cilena ha fatto centro regalando una lucida introspezione dentro la storia della cultura occidentale: una visione illuminante nel segno forte della contemporaneità.
Altri segni, quasi apocalittici, li ha lasciati in “Ghost”, il collettivo di artisti provenienti da Gent in Belgio, diretto da Stefan Bracke che nel suo allestimento ha proposto un esaltante mix di teatralità cinematografica in uno scenario da post catastrofe con musica rock ed elettronica ad alto impatto. Location perfetta, il villaggio di Mutonia alle porte di Santarcangelo già da sola ha una bella storia da raccontare. Anni fa giunse al festival di Santarcangelo per tenere uno spettacolo un gruppo di nomadi mutoids inglesi (artisti che usano per le loro opere solo materiale da riciclo). Una parte di questi decise di piantare le tende in questo angolo di campagna dove, con il tempo, è sorto un singolare parco popolato da originali installazioni artistiche ispirate in grande parte da film celebri come “Star Wars” e “Mad Max”. Quale scenario migliore per questo gruppo di musicisti e attori belgi che qui ha dato forma al suo happening introducendo gli spettatori all’interno di un set cinematografico coinvolgendoli come coprotagonisti di un film popolato di moto che sputano fuoco, marchingegni che aprono le ali di uccelli meccanici, robot e androidi dentro costruzioni costruite da carcasse di automobili e camion.
Uno spazio fantastico tra roulotte-case viaggianti trasformate in abitazioni di draghi dagli occhi terribili. A guidare il’esplorazione del pubblico sono un pugno di acrobati e saltimbanchi che giocano con palle di fuoco. Ed è fuoco dappertutto: arde in enormi braceri o salta fuori improvviso con fiammate a ripetizione da cannoni pseudo laser. Ma anche e soprattutto musica. All’inizio è un possente set elettronico. Beats pulsanti musica techno suonati con sound machine. E ancora possente hard rock chitarristico suonato in trio alla fine della lunga escursione nel parco di Mutonia. Impeccabile show, una bella botta di adrenalina che di colpo caccia via i fantasmi e i cattivi pensieri. Per chiudere con gli spettacoli stranieri visti nel periodo tra il 15 e il 17 luglio a Santarcangelo, la “Dark Swan” della coreografa dello Zimbabwe Nora Chipaumire, danzata in solo dalla ballerina etiope Selamawit Biruk: parte dalla fragile solitudine di Anna Pavlova in “La Morte del Cigno” per omaggiare le donne che a piedi sono fuggite dalla violenza e dal genocidio perpertrato nel Darfur.
A differenza del pezzo creato da Michel Fokine la coreografa africana decide però che il cigno non deve morire. L’opera commissionata da Bassano del Grappa nel 2020, a causa della pandemia è stata diretta a distanza da Chipaumire con i sei danzatori prescelti e poi riaffidata in quel di Santarcangelo alle capacità espressive della sola Biruk che l’ha presentata nell’ora del tramonto danzando sull’erba, nello spazio del parco Baden Powell, circondata a semicerchio dal pubblico. Sfumano le note di “The Swan” di Saint Saens, eseguito al violoncello dal grande Yo-Yo Ma e al piano da Kathryn Stott, quando Selamawit Biruk, tutù in bianco e top color verde inizia a danzare sul prato: subito la musica si confonde a rumori di auto che corrono, colpi di mitra e pistola. Una banda sonora mista a registrazioni dal vivo che drammaticamente riporta all’attualità di quel genocidio che produsse bombardamenti, centinaia di vittime e stupri in massa nella regione occidentale del Sudan. Tuttora a distanza da tanti anni dal 2003 l’area continua ad essere instabile e le violenze non sono finite (oltre trecentomila le vittime e più di due milioni e mezzo gli sfollati). Biruk compie movimenti cadenzati, calcando a lungo i piedi sulla terra, inseguendo un ritmo che suona come un appello a resistere, segnale di coraggio per un cigno che deve vivere e danza con la storia. Non ha passi o figure tratte dalla tradizione moderna o contemporanea: ma è un insieme di movimenti che evoca dolore, sofferenza, oppressione ma pure voglia di resistere. Accompagna gli ultimi passi di Biruk il canto meraviglioso di Maria Callas che intona “Casta Diva” di Bellini: “…Spargi in terra quella pace, spargi in terra/ Spargi in terra/ Che regnar tu fai…”
E’ invece fifty fifty, metà italiano e metà greco il duo formato dalla bolognese Paola Minni e Konstantinos Rizos danzatori e coreografi assieme da diversi anni che a Santarcangelo hanno presentato un loro spettacolo ben rodato risalente al 2018. “Pa.Ko doble” è infatti un passo a due condito da molta ironia e una danza fatta di movimenti anche non convenzionali molto ispirato alla tauromachia e con dentro tanto spirito rock’n’roll con un finale scoppiettante in cui i due danzatori si trasformano in un drago rosso e serpeggiante come quelli del Capodanno cinese. Iniziano lentamente, mostrandosi di spalle, completamente nudi con un telo colorato sulla testa per assumere presto le pose di improbabili toreri, diventando una mini band che si dispute per un brano sul Duende… che Garcia Lorca definiva quell’indefinibile senso che sta dentro le anime degli artisti. O quantomeno in molti di loro. Lorca diceva che “per cercare il Duende non c’è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile, che fa sì che Goya, maestro dei grigi, degli argenti e dei rosa della miglior pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni con orribili neri bitume”. Il Duende insomma è l’ispirazione, il sacro fuoco che arde dentro il cuore degli artisti come nei danzatori di flamenco e nei toreador.
Un discorso a parte tra stranieri e italiani merita “Abitare il ritorno” esito di una serie di laboratori nati all’interno del progetto “Incroci” ideato dal teatro Magro di Mantova in partenariato con Asinitas onlus di Roma e il progetto Amunì/Babel Crew di Palermo. Prevede lo scambio di esperienze di percorsi legati all’esperienza artistica e finalizzati all’inserimento lavorativo e integrazione sociale dei migrante. Il lavoro mostrato _ c’è una festosa rappresentanza delle persone che hanno partecipato a quella esperienza _ con la regia di Fabiana Iacozzilli mette per una buona parte al centro, come capita ampiamente in questo tipo di esperienze, l’origine dei participanti. “Da dove vengo”, “Come è la mia casa” etc.. utili a presentare se stessi e raccontare la propria rete di rapporti familiari e di amicizia, facendoli intersecare con le proprie tradizioni, i momenti di comunità e di festa, dal ballo alla tavola, tutti assieme a consumare il desco. Al di là del carattere frammentario e la comprensibile claudicante drammaturgia, come naturalmente può essere l’esito di un insieme di laboratori, ritroviamo anche qui, come è avvenuto nello spettacolo di due anni fa “La classe”, della stessa Iacozzilli, l’intuizione davvero importante di utilizzare all’interno del dramma elementi ripresi dal teatro di figura. Delle grandi ed essenziali figure, giganteschi puppets, realizzati dagli stessi partecipanti con carta e cartone, che sembrano evocare le figure umane di Mario Ceroli, sono manipolate ed agite dagli stessi attori. Una intuizione che potrebbe essere usata proficuamente all’interno di un percorso di ricerca che mette assieme e sullo stesso piano il lavoro degli attori e quella del teatro di figura. Sembra un fatto scontato ma non lo è. In tanti, troppi, ignorano in Italia l’enorme ricchezza di questa forma spettacolare che conta autentici maestri. Un’arte spesso derubricata per scarsa conoscenza a teatro di serie “B” o solo di intrattenimento per bambini.
Diavolo e acquasanta. Come sempre accade un festival porta nel suo grembo spettacoli che appassionano e si amano subito, altri che indignano o lasciano indifferenti. Normale sia così: fa parte del gioco e un buon festival è sempre una ottima palestra per capire e censire. Lo è stato anche Santarcangelo dei teatri che, in questa edizione chiusasi di recente nel borgo romagnolo con un programma ricco di proposte, ha mostrato in modo curiosamente puntuale differenze e prospettive di una scena, quella del Belpaese, ancora smarrita per la recente pandemia e che, a parte qualche eccezione, stenta ancora a ritrovare fiducia in se stessa. Pure se, pandemia o meno, qua e là lascia che i vecchi mali si intravedano e costituiscano ostacolo a un rinnovamento della ricerca e della sperimentazione. Accanto a chi vuole leggere la contemporaneità decodificando punti di crisi e rischi di fallout societario ci sono altri che continuano ad attardarsi su terreni concettuali per coprire le magagne di una debole ispirazione. Lasciare aperte tutte le opzioni senza però sceglierne alcuna. Si resta paralizzati da un tempo assassino segnato da angosce esistenziali e paura del futuro: una paura che ancora non si traduce in reazione e presa di coscienza per una attualità contemporanea che invece richiede mobilitazione culturale e politica: dal cambiamento del clima, alle migrazioni, dalla fame al risorgere di idee e nostalgie del Ventennio che fu fino all’oblio della storia anche recente. Tutto ciò si percepisce in performance e spettacoli ancora acerbi con scarso orizzonte e un po’ di confusione.
Nell’incantevole scenario della magnifica Villa Torlonia _ quella dove il padre di Giovanni Pascoli lavorò come intendente _ all’interno stesso della imponente costruzione quelli di Muta Imago in “Sonora desert” hanno voluto regalare un viaggio a ritroso nelle esperienze psichedeliche degli anni Sessanta attraverso “un’esperienza percettiva” in cui i partecipanti tra installazione, musica e luci avrebbero potuto esplorare come dicono gli stessi di Muta Imago “una dimensione liminale del sè”. Roba che solo i viaggi in scenari da film in 3D possono trasmettere, come quelli nel deserto di Sonora tra Arizona e Messico, luogo simbolo che guarda a caso ha ispirato l’evento presentato a Santarcangelo con la regia di Claudia Sorace, la drammaturgia di Riccardo Fazi e la direzione scenica di Maria Elena Fusacchia. Fuor di metafora accade che il gruppo di spettatori _ rigorosamente scalzi _ entrino prima in una stanza di compensazione scarsamente illuminata dove nelle pareti sono raccolti fogli di un diario del viaggio nel Sonora desert, le citazioni tratte dai volumi che hanno ispirato gli autori dell’opera stessa (da Jean Baudrillard ad Aldous Huxley) e al ammirare la “Dream machine”, cioè “la prima opera d’arte da vedere ad occhi chiusi” di Brion Gysin che produce visioni colorate. Un semplice cilindro perforato e un giradischi a 78 giri con una lampada sospesa al centro. Il lampeggiamento è in grado di produrre una gamma di frequenze, dette “ritmo alfa”, le stesse che il cervello umano emette quando è in stato di rilassamento (in rete esistono diversi progetti per costruire “fai da te” delle dreamachine tascabili addirittura). Gli spettatori, ormai parte di una piccola comunità, vengono poi introdotti in un ampio locale al cui interno sono allineate tante amache in cui si è invitati a prendere posto dopo aver posizionato sul volto e sugli occhi un morbido foglio di plastica e, per chi lo gradisce, anche una coppia di tappini per le orecchie, allo scopo di ammorbidire il suono. Nella oscurità totale sale la musica composta ad hoc da Alvin Curran mentre inizia il bombardamento delle luci percepite in modo sfocato, flou. Il suono diventa sempre più potente producendo assieme all’effetto luminotecnico un esempio di percezione diversa e alterata della realtà. Un po’ simile agli effetti psichedelici inventati dai primi Pink Floyd per intenderci. La installazione va avanti per oltre una ventina di minuti. Avvolti nella propria amaca, diventata un personale cocoon, si può restare conquistati dal giochino lisergico oppure tranquillamente dormire cullati dal suono di Curran.
Diverso tempo fa la riscoperta del “LTI. La lingua del terzo Reich” taccuino di Viktor Klemperer, filologo tedesco di origine ebraica (docente presso l’università di Dresda da cui fu destituito nel 1935) che nel periodo tra il 1933 e il 1945 annotò sui suoi taccuini quanto andava sentendo e leggendo a Dresda, la città dove gli fu permesso di continuare a vivere, in quelle che si chiamavano “Case per gli ebrei” (Judenhäuser) per via del suo matrimonio con una donna di razza ariana. Il filologo mette in evidenza i nodi caratteristici della lingua usata dai nazisti, i meccanismi di costruzione e propaganda. Scrive ogni giorno all’alba prima di andare in fabbrica. Annotando tutto: dai discorsi dei nazisti nel posto di lavoro a quelli dei gerarchi e della gente comune. Legge tutto quanto possa recuperare, giornali, comunicati aziendali, “Mein Kampf”, discorsi alla radio etc… e registra la povertà dei vocaboli usati dai nazisti, la germanizzazione dei nomi di villaggi, la ripetizione ossessiva di alcuni semplici concetti all’uso di prefissi e neologismi. In poche parole radiografa in diretta come un regime totalitario riesca in breve tempo a imporre al popolo la propria lingua. Un veicolo di manipolazione straordinario. E mette in guardia come i suoi effetti non finiscano con la caduta del Terzo Reich ma continuino come un fiume carsico anche nelle generazioni successive (vedi in Europa la rinascita di movimenti para fascisti). Decise di pubblicare il “Taccuino” nel 1947 (in Italia fu ristampato nel 2011 da Giuntina) perché , disse “a sparire non dev’essere solo l’agire da nazista, ma anche il pensare da nazista, l’abitudine a pensare da nazista e il suo terreno di coltura, la lingua del nazismo” . Il testo di Klemperer è un formidabile e coraggioso atto di resistenza che permette al filologo, tra gli alti e i bassi, di mantenere viva la sua identità. “Resistenz” e “Widerstandskraft”sono i termini utilizzati da Klemperer. Il primo significa “mantenersi in vita a qualsiasi costo”. Il secondo ipotizza una forma di opposizione attiva e ribelle per tutto quanto si mostra contrario al desiderio di libertà. Ecco i pilastri che tengono in vita e guidano lo studioso nella sua scrittura. Importante e necessaria per far capire perchè volesse “rendere evidente il veleno della LTI e mettere in guardia da esso”. Il filologo spiega, tra l’altro, nella prefazione che “il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente”.E più in là, in modo ancora più dettagliato, avvisa che “la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo”.
Romeo Castellucci di Societas si è ispirato dunque all’opera di questo filologo tedesco per realizzare il suo “Terzo Reich”, presentato in anteprima a giugno alla Triennale di Milano dove fino alla fine del 2024 è stato nominato “Grand invitè” riproponendolo nei giorni scorsi a Santarcangelo nello spazio all’aperto del parco Baden Powell. L’opera, nelle intenzioni del suo autore (come si legge sul sito della Societas) è “l’immagine di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza. Qui, il linguaggio-macchina esaurisce interi ambiti di realtà, là dove i nomi appaiono uguali nella loro serialità meccanica, come fossero i blocchi edilizi di una conoscenza che non lascia scampo”. Nello stesso sito si spiega anche come funziona quello che si concentra su un megaschermo. Ossia una una proiezione di parole. La velocità di sequenza è “commisurata alla capacità retinica di trattenere una parola che appare nel baleno di un ventesimo di secondo. Tutto questo alla fine porterà lo spettatore esposto a questo tipo di trattamento a subire “la parola umana sotto l’aspetto della quantità”. Insomma stiamo parlando di una video installazione, come tra l’altro correttamente viene indicato nel succitato sito web della compagnia di Cesena (e ci mancherebbe!). Che però ha una ouverture teatrale. Piccola ma significativamente rituale, fotografa nella penombra la danzatrice Gloria Dorliguzzo che nel proscenio accende delle tremule fiammelle e dopo aver spezzato una colonna vertebrale umana (in plastica bianca) la deposita sul palco come fosse un objet d’art. Da questo momento in poi, sostenuto dalla colonna sonora elettronica e assordante di Scott Gibbons parte il bombardamento visivo delle parole proiettate su un grande schermo nero. La sequenza, probabilmente affidata a un qualche algoritmo intelligente spara vocaboli sul nero con velocità siderale e a tempo di musica elettronica industrial. Il parallelismo suggerito con l’opera di Klemperer è banalmente evidente anche se va segnalato il fatto _ giusto per la cronaca _ che un simile lavoro di analisi e denuncia sulla lingua italiana durante il fascismo purtroppo non è stato fatto e, magari ce ne sarebbe stato davvero bisogno. Certo si potrebbe prendere in considerazione “Il fascismo eterno” teorizzato da Umberto Eco (un breve saggio del 1995 edito nel 2017 per la Nave di Teseo) sugli elementi di fascismo ancora vivi in Italia e in Europa dopo la fine della guerra nell’epoca contemporanea, dove l’insigne studioso elencava gli archetipi in una serie di punti. Uno di questi era appunto quello di una nuova lingua con un bagaglio critico assai limitato e costruita su una sintassi elementare. Per capire meglio quanto ancora questi moniti di Eco e di Klemperer siano attuali occorre meditare attorno a un interessante articolo apparso su “Doppiozero” di due anni fa in cui Silvia Ballestra riportava a sua volta la recensione di Aldo Nove di venti anni prima in cui scriveva “Rabbia, demagogia e identificazione di un capro espiatorio. Questi tre elementi in particolare sono quanto mai attuali, e forse lo saranno sempre. Vanno tenuti d’occhio”.
Un appello quanto mai prezioso e assolutamente necessario che probabilmente era anche nelle intenzioni di Castellucci di divulgare. Ma nello spettacolo teatrale (definizione impropria in questo caso) mostrato nel parco di Santarcangelo non c’è via di scampo alle parole in bianco prodotte a velocità supersonica sullo schermo nero con la colonna sonora a tutto volume. E così si va avanti per cinquanta minuti. Procedendo cioè a folle ritmo tra composizioni e scomposizioni quasi fosse un campionato del gioco del “Paroliere”, in realtà forse più amato e popolare presso i francesi che da noi. Insomma alla fine, duole dirlo per chi assiste è una visione deprimente e persino un po’ noiosa. Faticoso cercare e ritrovare un senso teatrale a qualcosa di più simile a una video installazione per mostre d’arte (come giustamente viene dichiarato sul sito di Societas). E quindi? Probabilmente “Terzo Reich” , salvando il lodevole messaggio che porta seco ha sbagliato festival e probabilmente visto all’interno di una cornice giusta (mettiamo la Biennale d’arte ad esempio) potrebbe non solo essere meglio fruito ma diventare elemento di necessaria riflessione grazie al vantaggio di essere compreso proficuamente anche visionandolo per soli dieci minuti. Per la cronaca le ultime parole visionate sullo schermo sono state : “abisso”, “vittima”, orizzonte”.
Positivo il bilancio dell’edizione targata Motus: 15.000 presenze agli spettacoli (7829 biglietti venduti) in 11 giorni di programmazione per un totale di 191 appuntamenti di cui 113 a pagamento e 78 gratuiti.Ancora numeri: 49 spettacoli (160 repliche in totale), 8 concerti, 8 proiezioni di film più una maratona cinematografica di 12 ore, 2 lecture, 8 incontri e presentazioni, 11 dj set, 11 laboratori, 1 mostra. Non solo. Hanno preso parte al festival 51 compagnie, per un totale di 271 artiste e artisti, a cui si aggiungono i 55 giovani partecipanti al progetto How To Be Together.
Nella loro lettera di addio Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande hanno scritto: “Ci auguriamo che questi 11 giorni siano schermo e rumorosa resistenza al vento di restaurazione culturale che avanza, si propaga dall’alto delle maldestre politiche culturali del nostro ministero, che se non coglie i segnali potenti che anche una nuova generazione germogliante sta rilasciando, rischia di far ammuffire tutto come la sala chiusa del Teatro Valle occupato abbandonata all’incuria. Quindi continuiamo a creare prodigiose confluenze, sempre più allargate anche a chi teatro non lo fa, ma lo scoprirà incontrandolo. Grazie!”
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