Teatro

Sansepolcro, il giardino conteso e tutto il teatro di Kilowatt

2 Agosto 2021

Non si uccidono così anche i festival teatrali? Cocciutaggine burocratica, ignoranza e scarso amore per la cultura nel Belpaese spuntano sempre come l’erba cattiva che infesta i raccolti. Così, dopo una lunga pandemia, durata oltre l’anno e tuttora in corso con il fardello di preoccupazioni che si porta dietro, dall’ansia per i contagi ai rischi per la salute pubblica, si aggiunge il cavillo burocratico che colpisce le rassegne e ne mette a rischio l’esistenza, contro cui purtroppo, non esiste alcun vaccino. Tutto vero. E’ accaduto in quel di Sansepolcro, ai confini tra Toscana e Umbria, dove da diciannove anni, dal 16 al 24 luglio, si tiene un festival originale come Kilowatt, riconosciuto come manifestazione di interesse europea, modello di coinvolgimento e cittadinanza democratica, presidiato da uno dei più vivaci gruppi di spettatori organizzati, i Visionari, colonna portante della rassegna curata da Lucia Franci e Luca Ricci di CapoTrave. Proprio nel borgo che ha dato i natali al pittore Piero Della Francesca e dove si può contemplare la meravigliosa opera della “Resurrezione”. Per lo scrittore inglese Aldous Huxley quel dipinto è “la più bella pittura della storia” e permise di bloccare addirittura i bombardamenti alleati nella seconda guerra mondiale (il capitano Anthony Clarke infatti, memore delle parole di Huxley annullò il cannoneggiamento del borgo medioevale). Ma non l’occhiuto controllo dei vigili preposti. Tutto ciò, ironia della sorte, è infatti accaduto nel giardino intitolato al grande pittore locale, abituale centro di incontro della comunità che lì tiene feste e incontri. E così è stato anche per Kilowatt che questo anno lo aveva eletto a location del Dopofestival. Punto di riferimento cioè per artisti e pubblico che dopo gli spettacoli scambiavano opinioni attorno a un bicchiere di vino. Come accade cioè in tutti, o quasi, festival del mondo. E così ha funzionato per la rassegna fino al momento dello stop.

Nella foto un incontro tra i Visionari, il gruppo di spettatori del comune di Sansepolcro che collabora attivamente con il festival Kilowatt

Ecco il racconto degli stessi di Kilowatt. “Il quarto giorno di festival _ dicono gli organizzatori_ lunedì 19 luglio, un’ispezione del Nucleo Carabinieri-Forestali di Sansepolcro ha riscontrato presunte irregolarità nel nostro punto di ristorazione, incontri e dopo-festival, situato presso i Giardini di Piero della Francesca. Dopo varie convocazioni in caserma, tra martedì 20 e mercoledì 21 luglio, ci è parso di non avere altra scelta che chiudere questo spazio e annullare i concerti che vi erano stati programmati”. In soldoni, tra altre cose, è stata contestata l’assenza di un’autorizzazione formale da parte della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per utilizzare i Giardini di Piero, poiché tali giardini sono un luogo sottoposto a tutela. Così Kilowatt: “Nel momento in cui un’associazione come la nostra chiede di utilizzare uno spazio sottoposto a vincolo (noi ne abbiamo fatto richiesta formale il 28 aprile) è dovere del competente ufficio comunale – e non dell’associazione – chiedere questa autorizzazione alla Soprintendenza che ha massimo 4 mesi di tempo per rispondere. Da decenni il Giardino di Piero è usato per eventi e attività e mai prima di oggi una qualsiasi manifestazione era stata costretta a interrompersi per mancata autorizzazione della Soprintendenza. Così, abbiamo rimosso tutte le strutture mobili che vi avevamo montato: ovvero due palchi, il bar e il ristorante, tutti allestiti senza alcuna modifica strutturale dell’area in questione e nel rispetto della possibilità di chiunque di continuare a fruire del luogo pubblico. Si è dunque chiuso un contesto di incontro fondamentale per il festival, dove convergevano artisti e cittadini, creando una connessione con la comunità locale, che è uno degli scopi principali del nostro festival”.

Un’immagine del centro storico del borgo medioevale di Sansepolcro. Sotto le Logge da anni si tengono gli incontri pubblici del mattino durante il Festival.

Senza entrare troppo nei meandri di una burocrazia fatta di regole e regolamenti, norme e avvisi _ il rischio è quello di perdersi come nel celebre castello di Kafka _con cui fa i conti l’organizzazione della rassegna (che “è in grado di presentare un dossier di 135 pagine”) emerge così che mentre faticosamente si riprendeva il filo di una vita normale, con nuovo ritorno a teatro e a fare cultura, il blocco (mettendo anche in conto le ragioni delle autorità) ha provocato sbandamento e frustrazione in chi ha speso tempo e lavoro per tornare in pista con una manifestazione tra le più in vista della scena contemporanea estiva. Tanto più, come affermano a Kilowatt, che hanno affrontato “il controllo dei Carabinieri- Forestali con la buona fede di avere adempito a tutto ciò che ci era stato richiesto dagli uffici di competenza, relativamente a piani sicurezza, antincendio, prescrizioni anti-Covid, autorizzazioni per impatto sonoro, certificazioni alimentari e molto altro ancora”. Certo i Carabinieri-Forestali _ribattono gli organizzatori _ hanno il dovere di applicare la legge, ma davanti a un impressionante dossier di permessi etc… ma, magari con un po’ di grano salis “anche qualora restasse una supposta mancanza, forse si sarebbe potuta cercare una mediazione che non fosse ipotizzare un ulteriore controllo la sera successiva, di fatto portandoci a chiudere”. E su questo è difficile che si possa aggiungere altro.

Ed è quindi da un giardino contestato che si parte per raccontare un festival che come motto questo anno aveva scelto “Questa fervida pazienza” per indicare la difficoltà del riprendere dopo la pandemia con un appello per continuare a resistere.

Si parte da “Pourama pourama”   performance del franco iraniano Gurshad Shaheman uno degli eventi clou di questa edizione, spettacolo in due parti aperto da un interno giorno, “Touch me”,  nello spazio del Chiostro di Santa Chiara. Qui si sono sfogliate le pagine del diario di una fanciullezza vissuta in Iran al tempo della guerra con l’Irak, il rapporto con il padre che respingeva qualsiasi contatto con il figlio (gli spettatori sono invitati ad indossare all’ingresso una maschera riproducente il volto del padre) e l’obbligava a lavarsi con lo slip perché “non bisogna mai mostrare la propria nudità, nemmeno al proprio padre”. Il racconto, con la voce fuori campo accompagnato dalla proiezione di fotografie prende un ritmo sostenuto a partire dall’istante in cui Gurshad, jeans e T shirt sale sul palco. Da allora in poi il racconto diventa a tempo con l’invito agli spettatori di avvicinarsi al performer e toccarlo, pena l’interruzione della narrazione. Un’ora e mezzo più tardi è la volta di “Taste me”.

“Pourama Pourama” del franco iraniano Gurshad Shaheman: qui durantela prima parte dello spettacolo intitolata “Touch me” (Foto Elisa Nocentini)

Gurshad ricompare abbigliato in abiti femminili, un tailleur punteggiato di strass, scialle, tacchi a spillo e vistosi orecchini. Riprende il racconto con la voce fuori campo, mentre il performer cucina un semplice e profumato piatto iraniano che servirà agli spettatori. Stavolta figura chiave è la madre divorziata, esiliata in Francia con lo stesso Gurshad dodicenne. Il diario autobiografico si focalizza così sugli anni dell’adolescenza, quelli della scoperta del proprio corpo e della omosessualità anche attraverso la prostituzione, e infine la maturità degli affetti adulti, ultima parte di una narrazione fatta a cuore aperto. Perchè “Pourama Pourama”, o racconto di una vita, è un coraggioso e commovente tuffo nei meandri più delicati e intimi di un ragazzo che abbraccia il Paese che l’ha accolto e dove si è impadronito in poco tempo della sua lingua,  l’insaziabile voglia di conoscere a fondo letteratura e poesia senza dimenticare l’altro, quello natale, lasciatosi alle spalle, con i suoi riti e misteri sconosciuti agli occidentali. Non ha veli o pudori nel mettere a fuoco il rapporto con i genitori, assai differenti se non all’opposto, uno dall’altro. Con naturalezza, eppure con determinazione Gurshad Shaheman rivela se stesso e le proprie scelte nel difficile tempo della educazione sentimentale. Uomo a metà, diviso tra due culture. Dietro un impetuoso flusso di memoria condivisa si indovina un originale percorso letterario nutrito da una ottima conoscenza della letteratura francese (non solo Genet ma anche Duras e altri..) accompagnata da un grande amore per uno scrittore importante come Reza Baraheni, uno dei più importanti della letteratura contemporanea persiana e di cui Gurshad ha tradotto in francese romanzi e poesie che, probabilmente, lo hanno influenzato nella ricostruzione autobiografica per la parte orientale di “Pourama Pourama” (lo spettacolo è stato presentato con successo dell’edizione 2018 di Avignone). Un evento teatrale delicato e straniante che, accanto alla poetica semplicità della rivelazione, unisce conoscenza della vita, metaforica e crudele. Racconto cioè dell’emanciparsi di un adolescente che, liberatosi dai lacci che lo legavano alla famiglia, vola via per scoprire il mondo.

Giuseppe Provinzano nel monologo “GiOtto” dedicato ai casi di Genova e alla morte del giovane Caro Giuliani durante le proteste per il G8 (foto di Elisa Nocentini)

E’ un altro giovane il protagonista di una storia maledetta, tutta italiana. Cronaca di un assassinio in un giorno di luglio, il 20, a Genova, lo stesso scelto da Kilowatt per non dimenticare la morte di Carlo Giuliani ucciso da un colpo di pistola sparato da una camionetta dei carabinieri durante le proteste del G8. Data ed evento che segnano di nero e di vergogna la recente storia d’Italia. Sono già venti anni, ma brucia ancora il ricordo di quel giorno, come fosse oggi. E così la racconta in modo appassionato un giovane in un angolo dell’antico palazzo Aloigi Luzzi nel centro di Sansepolcro. Una stanza ridotta che aumenta la sensazione e il disagio di chi ascolta “GiOtto” percependolo come fosse una vicenda familiare riguardante chi sta lì ad assistere. Un attore di origine siciliana, Giuseppe Provinzano, l’età stessa di Giuliani, e anche lui in quelle dannate ore dentro il crogiuolo ribollente di rabbia e violenza nella città della Lanterna, con la zona transennata e sigillata, riservata ai potenti del mondo , “gli otto re”, con l’allora premier Berlusconi a fare gli onori di casa e un apparato impressionante di forze dell’ordine con l’ordine di fare piazza pulita dei manifestanti giunti da ogni dove a protestare nei cortei del centro storico. Furono ore di odio e violenza. Cariche indiscriminate, provocazioni, agenti infiltrati tra le file dei black bloc per scatenare disordini e favorire gli interventi duri e repressivi. Sono i giorni e le ore della mattanza alla scuola Diaz e a Bolzaneto. E della morte di Giuliani in piazza Alimonda. Provinzano far rivivere quei momenti scandendo i passaggi come parti di una tragedia greca, segnandoli con il gesso su uno sgabello.. E’ un ricordo con rabbia, utile e necessario perché la memoria di quelle ore si stampi nelle nostre. Per non dimenticare. Dopo tanti anni, ancora senza un finale, senza un punto fermo, una giustizia condivisa. Troppe le zone oscure di quella vicenda e le responsabilità di una linea di comando avvolta nelle nebbie: difficile superare il muro omertoso costruito dal potere. Provinzano, attore genuino con giusto straniamento brechtiano fa avanzare  il racconto per step successivi, circondato da una scenografia minimale costruita dalle foto in bianco e nero di quei giorni e che fa il paio con le registrazioni autentiche di quelle ore. C’è il ritratto del black block e quello in parallelo dell’agente figlio del sud, dove sembrano riecheggiare le riflessioni poetiche di Pasolini scritte nel 1968. Il pezzo di teatro, semplice e possente va avanti asciutto e dritto come un j’accuse definitivo, fotografando impietoso la terribile impotenza di chi assiste a quel viaggio con le lacrime dentro e la rabbia in corpo.

L’attrice Marleen Scholten nel monologo teatrale “La Codista” andato in scena a Kilowatt  ispirato a un fatto realmente accaduto a Milano  (foto di Luca Del Pia)

Metà della vita ad aspettare un posto che non arriva. Una parte dell’esistenza concentrata sull’attesa può trasformarsi in un lavoro? E’ l’incipit de “La Codista” monologo impeccabile scritto e presentato in scena da una bravissima Marleen Scholten, attrice, ma anche autrice e regista del collettivo olandese Wunderbaum in questo caso a suo agio nei panni di una persona che prende il posto, a pagamento, nelle lunghe code negli uffici. E’ la vicenda autentica di un impiegato milanese, Giovanni Cafaro che, perso il suo impiego si era inventato appunto il mestiere di “codista” a dare l’ispirazione teatrale. Tutto ruota attorno all’attesa, come efficacemente mostra Sholten, vestita di grigio, simile ad una anonima figura di “travet” meneghina. Attesa per un numero che è troppo lontano? Nessun problema. Ci pensa la codista. In un mondo che va a mille, le code sono un intoppo, qualcosa, se possibile, da evitare. Anche un po’ terrorizzati dallo stare in piedi, in fila tra sconosciuti, guardando il vuoto per ritrovarsi poi vis à vis con se stessi… Per questo ci pensa il “nostro” sostituto, un personaggio che sembrerebbe inventato da Beckett. La codista diventa così anonimamente presente. Indossa l’identità di altri e quella di nessuno in particolare mentre per far girare i minuti dell’attesa legge poesie. John Donne, Mariangela Gualtieri... versi che per un attimo le restituiscono la magia della vita che si perdono al vento come foglie d’autunno all’annuncio del numero tanto atteso per il quale ci sarà il colpo ad effetto…

I giovanissimi attori Beatrice Casiroli e Emanuele del Castillo interpreti di “A+A”_ storia di una prima volta” di Giuliano Scarpinato (foto Luca Del Pia)

In “A+A” sottotitolo “Storia di una prima volta” Giuliano Scarpinato mette a fuoco con intelligenza e sensibilità _ come raramente capita in questi casi _ i desideri e i turbamenti del sesso nel tempo delle mele. Anche grazie a due interpreti all’altezza, dall’interpretazione teatrale precisa e senza smancerie come i giovanissimi Beatrice Casiroli e Emanuele del Castillo ha imbastito in modo liquido l’incontro, l’innamoramento e la scoperta del proprio corpo di due adolescenti del giorno d’oggi tra social e vita quotidiana, Tic toc e Whatsapp, senza banalizzazioni o strizzate d’occhio ma, finalmente, in modo leggero (che non vuol dire banale) e intelligente, dando spazio corposo alle paure e agli interrogativi di due ragazzi che si affacciano alla vita. Ecco quindi che le fantasie come i sogni volano liberi raccontati in modo trasparente in un allestimento che conosce la grammatica della recente drammaturgia, utilizzando la videoarte come la danza per parlare con il linguaggio schietto della contemporaneità. Davvero un bel lavoro, da indirizzare non solo ai giovani ma anche ai padri e le madri di una generazione in cerca di se stessa. Fin qui il teatro. Ma Kilowatt, da sempre è rassegna che con eguale passione e peso, ogni sua edizione, attribuisce un notevole spazio anche alla danza contemporanea, spesso anticipandone linee di sviluppo e rivelando talenti, pure in anticipo rispetto a manifestazioni consimili. Ecco quindi anche in questa occasione, delle coreografie assolutamente di valore accanto a curiosità e segnali da tenere conto.

La danzatrice americana Lois Alexander in azione nella sua coreografia “Neptune” (Foto Luca Del Pia)

Colpisce con forza “Neptune” coreografia liquida che accarezza lo sguardo guidando il cuore e la mente nei recessi più lontani della storia di chi non è solo nera americana, Lois Alexander, danzatrice e autrice del solo. Figlia lontana dell’Africa, le sue più forti e ataviche radici diventate in America parte di un meltin pot che ha prodotto e continua a produrre culture in progress. Come mostra benissimo la coreografia, che cresce di intensità e potenza con il passare dei minuti. Lois Alexander sta all’interno di una scenografia (curata da Nina Kay) fatta di blocchi di ghiaccio di forma diversa appesi con delle catene al soffitto. Quando l’elettronica di Shannon Sea, musica spaziale consistente per qualche attimo si fa meno intensa sino a sfiorare il silenzio, si odono le gocce d’acqua cadere sul palcoscenico. Lo scongelamento dei blocchi forma piccole pozzanghere, volute d’acqua dove i piedi della danzatrice si tuffano spargendo il liquido dappertutto, quasi fosse un rituale, mentre la danzatrice e performer si aggira sulla scena con uno specchio ovale in cui talvolta riflette il volto, le mani e gli avambracci, formando così strane e meravigliose creature. Alexander è bellissima, elegante e di presenza austera, come una regina che soprintende il cambiamento, la mutazione. Sfiora il ghiaccio e maneggia le catene simbolo di schiavitù, guardando dritto negli occhi, muove una danza fatta di movimenti circolari, figure di morbida e raffinata compostezza. Il controllo della scena è totale nel finale, quando Alexander sfilandosi gli abiti, li appende alle catene, prende un pezzo di ghiaccio con cui bagna il suo corpo e recita con voce tesa dei versi della poetessa canadese Marlene NourbeSe Philip, caraibica originaria del Tobago, punto di riferimento forte nella lotta dei diritti, nella denuncia del razzismo e del sessismo. Alfiere di visioni transculturali canta la mobilità e lo spostamento per esaltare gli spazi che cambiano.

“Coefore rock’n roll” del coreografo Enzo Cosimi andato in scena a Sansepolcro (Foto Luca Del Pia)

E rabbia, vendetta, tra sogni spezzati e infanzie perdute, violenza e desiderio si agitano sotto i cieli plumbei delle “Coefore” con cui Enzo Cosimi, uno dei maestri della danza contemporanea italiana, continua a conquistare il pubblico con spettacoli di forte impatto visivo, rimarcabile energia dei danzatori, scenografie di segno minimal seducenti e simboliche, trionfo di colori e attenzione speciale per la musica, in questo caso la techno di Lady Maru, icona delle serate club culture. Cosimi guarda ai miti fondanti della tragedia classica, ai suoi personaggi /eroi ed archetipi. Stavolta è l‘Orestea al suo secondo tragico capitolo. Quello del ritorno di Oreste dopo dieci anni di lontananza, la sua tremenda vedetta compiuta uccidendo Egisto _che aveva ucciso Agamennone _ e la madre Clitennestra sua complice. Sale da subito la temperatura dell’opera: straordinaria per intensità ed energia (anche per la bravura delle due danzatrici Alice Raffaelli e Roberta Racis) in virtù del passo a due di Clitennestra-Elettra , un intreccio perfetto di passi e ritmo, presenza scenica ed emozionante teatralità. L’ingresso in campo di Oreste e Pilade (Francesco Saverio Cavaliere e Luca Della Corte), corpi scultorei e solida intesa, riconduce a sintesi epica la tragedia. Nel momento culmine Cosimi trasfigura poeticamente con immagini surreali e fortemente pittoriche. Compaiono in scena trapunte belle come arazzi dai colori del cielo e dell’arcobaleno, chitarre elettriche e teli di seta. E, soprattutto la musica senza stop di Lady Maru che immerge la tragedia in uno spazio senza tempo, algido e senza compassione.

“Context”, performance in trio del coreografo Alessandro Carboni , terza parte di un progetto articolato di performance e una mostra foto di Elisa Nocentini)

Offre un punto di visione stimolante Alessandro Carboni, artista visivo e coreografo sempre in bilico fra costruzione spettacolare e opera d’arte, due ambiti spesso esplorati contemporaneamente come frutto di un complesso studio d’osservazione dello spazio circostante. Quello astratto e l’altro quotidiano, popolato di oggetti e di persone che lo occupano e con cui si relazionano: spazi talvolta anche coincidenti, da indagare e misurare con cristallino rigore cartesiano. Il tutto per riportare poi a sintesi poetica, come luogo in cui avvengono le mutazioni dettate dal tempo. In “Context”, performance in tre tempi, per solo, duo e trio, presentato a Sansepolcro, come articolato progetto, prevede anche a una mostra dei disegni preparatori delle performance dal vivo in cui si può osservare la trasposizione grafica degli spostamenti degli interpreti inseriti in uno spazio che è tridimensionale. Una graduale marcia di avvicinamento al cuore dell’ispirazione artistica: una specie di “organismo composto da elementi diversi in continua interazione tra loro” così infatti lo definisce Carboni. Punto grafico di partenza è il triangolo, figura geometrica che diventa anche l’unità di misura dello spazio stesso agito dai performer. Nel trio, punto di arrivo di “Context”, in uno spazio indefinito che emerge morbidamente dalla semioscurità il tempo è scandito dal movimento perfettamente sincronizzato di tre figure indefinite per genere e sesso, abbigliate con burqa neri che coprono il volto, lasciando libera solo una fessura per gli occhi. Il luogo scarsamente illuminato, sembra suggerire atmosfere di mistero e immagini surreali mentre i performer (le bravissime Ana Luis Novais, Sara Capanna e Loredana Tarnovschi) inginocchiati su un pavimento scuro, all’unisono sollevano dal suolo, e contemporaneamente ruotano, i triangoli neri voltandoli nel lato color bianco, smontando e ricostruendo via via la pedana. E così si riparte in loop. Montaggio e smontaggio. Nero e Bianco. Bianco e nero. La magnifica ossessione dello spazio geometrico prende forma così davanti agli occhi di tutti. Completato il cambiamento, si riprende. Esattamente come prima, ma con il risultato opposto del colore. E’ quasi una liturgia con i suoi tempi stretti, la sua gestualità monacale che ipnotizza in cortocircuito continuo tra tempo e spazio. Si riparte e chi osserva rivede come in moviola gli stessi gesti di prima. Ne indovina il percorso salvo restare colpiti e sorpresi dal colpo di scena finale. Ancora Carboni: “Tutti i formati hanno un forte taglio visivo e si sviluppano a partire dallo stesso principio fondante: l’idea del doppio, della dualità, dell’alternanza”. Ma è l’imprevisto che fa salire la temperatura teatrale e ne giustifica il senso.

Un momento della lunga dance “If You could see me now”opera del coreografo olandese Arno Schuitemaker (foto di Luca Del Pia)

Due altre segnalazioni per quanto riguarda la danza. La prima è riferita al coreografo olandese Arno Schuitemaker considerato dalle sue parti come punta più alta tra gli emergenti. A Kilowatt è approdato con “If you Cold See Me Now” con tre danzatori _ Stein Fluijt, Mark Cristopher Klee eIvan Ugrin _ che sembrano sbarcare dritti dritti da un chilled out club dance degli anni Novanta. Lo sguardo li fotografa in piena e fluida dance, mentre occupano con le loro evoluzioni in progress tutto lo spazio di un palcoscenico disadorno: un movimento che viene spinto fino all’estremo limite della resistenza fisica. Eppure i tre, come figurine di un carillon postmoderno stanno in piedi e calibrano benissimo i loro movimenti in modo fluente ed elegante, posizionandosi volta per volta in primo piano al termine del loro movimenti danzati in circolare sulle musiche di Wim Selles che ispirano un po’ di nostalgia.

Si resta affascinati magneticamente da questo movimento in progress, che sembra cercare l’armonia e allo stesso tempo distruggerla. E’ invece italiano il giovane Adriano Bolognino protagonista di un fulminante racconto coreografico, “Your Body is a Battleground”, titolo che riporta alla memoria il celebre manifesto serigrafato nel 1989 dall’artista concettuale femminista Beatrice Kruger sempre in prima fila nelle battaglie per i diritti. Bolognino per la sua opera allarga il messaggio a tutti i corpi per poter indagare sulla coscienza del singolo in rapporto ai modelli sociali. Quelli cioè imposti dal potere. Naturalmente è la condizione femminile che resta oggetto principale della coreografia, anche perché la donna secondo Bolognino “da sempre simbolo di fertilità e seduzione, è sicuramente la più soggetta alla strumentalizzazione”. Nella creazione coreografica Bolognino rappresenta bene il gioco degli opposti e lo scontro tra sentimenti differenti. Scontro percepito anche e soprattutto fisicamente come un corpo a corpo, rispettando le intenzioni del titolo. Quasi un urlo di rivolta contro chi vuole imporre comportamenti, assegnare ruoli e decidere quello che si debba essere. Un messaggio di libertà e un giovane coreografo da tenere d’occhio.

Il danzatore Adriano Bolognino in “Your Body is a Battleground” (foto di Luca del Pia)

Chicca finale è infine “Untold” che non è né danza né teatro in termini tradizionali, bensì teatro di figura. Affascinante teatro di figura a cura di UnterWasser, compagnia al femminile formata da tre formidabili teatranti: Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Carlo che mostrano come si possa fare teatro di alto livello con le ombre. Ombre che proiettate su teli, danno profondità a uno spettacolo costruito con altri elementi. Fili metallici che partecipano in costruzioni complicate e intrecciate nello spazio dove i loro confini e proiezioni diventano esse stesse ombre. Piccolo, infinitamente piccolo, infinitamente grande. Piccoli uomini che scalano labirinti di fili, grandi uomini e donne che emergono dal buio come ombre fugaci. Non c’è vuoto, non c’è pieno, ma tutto sfila davanti agli occhi come una lanterna magica accesa nel buio notturno, e per tetto un cielo di stelle. Sguardi fuggitivi sommano treni che corrono, interni di case, sedie che volano, palazzi di periferia che sfilano veloci, sagome che galleggiano in un iperspazio lunare etc… visioni che lasciano un segno fugace, apparizioni dal mondo dei sogni. Qualcosa che non si può dire. Che non si è detto. Untold, appunto.

La compagnia UnterWasser durante una scena dello spettacolo di ombre “Untold” (foto di Marco di Giuseppe)
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