Teatro

Roberto Latini e l’Etica dei Comici

25 Luglio 2020

In occasione del Festival Kilowatt di San Sepolcro ho preso parte al bel convegno organizzato dalla Direzione del Festival, Lucia Franchi e Luca Ricci, assieme a Roberto Latini, artista padrino della edizione 2020. Ed è stato un bell’incontro, vivace, sereno, appassionato. Il tema era “La tradizione dell’Innovazione“. Tema ampio e articolato, ma ho preferito intervenire affrontando alcuni aspetti secondo me significativi del percorso di Roberto Latini e di Fortebraccio Teatro. Quel che segue è il testo del mio intervento. Forse un po’ lungo, ma parlando, poi, l’ho tagliato e smussato.

 

 

foto di Luca Del Pia

 

Fa un certo effetto parlare di Roberto Latini. Ci conosciamo, siamo amici più o meno da venticinque anni. Dunque non potrei non parlarne con stima, affetto, emozione. Ugualmente parlare di Fortebraccio Teatro, di Gianluca Misiti, con il suo garbo e la sua creatività, o di Max Mugnai, che ho conosciuto al Teatro di Leo, a Bologna, a metà anni Novanta. Dice Roberto che ha iniziato a fare teatro quando, sceso da un motorino, è entrato nella scuola di Perla Peragallo: ebbene, io mi ricordo di Roberto che girava per Roma su quel motorino. Ho contribuito, molto lateralmente, a far conoscere Latini alla scena romana, promuovendo in modo spasmodico uno dei suoi primi lavori. Sono passati decenni. Ma sono stati anni segnati da quella che si chiama, si chiamava “gavetta”. Oggi sembra un concetto svanito. Basta uno spettacolino di venti minuti, perché un gruppo venga immediatamente posto sotto i riflettori, analizzato, promosso. No, Fortebraccio ha fatto gavetta, proprio come nel teatro all’antica. E mi piace ricordarlo.

Allora, vorrei provare in questa sede a riflettere sul concetto di responsabilità nel percorso di Roberto Latini. Perché mi pare importante qui scandire a chiare lettere quanto e come gli spettacoli siano sostanzialmente radicati in un concetto profondo di Etica. A mo’ di sottotitolo di questa riflessione, che non vuole essere esaustiva, ma solo contributo e spunto per la discussione in atto, potremmo coniare una formula: 4 incidenti e un successo.

Ovvero, penso di poter dire che per arrivare al legittimo, meritato, consapevole successo di questi tempi, Roberto Latini è passato attraverso quei 4 incidenti di percorso, “fallimenti”, sia detto tra virgolette, non essendo fallimenti né in senso economico né giuridico, né, men che meno, teatrale. Sono, piuttosto, smaccati fallimenti di sistema, deflagranti costatazioni della devastante situazione in cui vive il teatro italiano e che Fortebraccio teatro ha subito.

E sono episodi che, a mio parere, hanno contribuito a dare ulteriore consapevolezza e magistero al percorso artistico di Latini.

Chiarisco, a scanso di equivoci, Roberto Latini era già Roberto Latini al suo primo spettacolo: talentuoso, bravo, consapevole, attento, affascinante, innovativo, autocritico. E non sapete che piacere “critico”, oggi, ricordare che privilegio sia stato difendere, sostenere, accompagnare questo artista, quando molto teatro italiano inseguiva ben altre mode. Lo sappiamo: poi, col tempo Latini ha consolidato e raffinato il suo modo di essere, vivere e proporre il teatro.

Dunque cominciamo con il primo “incidente di percorso”, se così vogliamo chiamarlo.

Che vorrei individuare nel rapporto conflittuale, non garantito, con la città di Roma. Rapporto tanto irrisolto da spingere Roberto – come molti altri della sua generazione – a lasciare la città. Più o meno, certo con differenze, tutta la cosiddetta generazione Anni 90 della scena romana a un certo punto è stata costretta a mollare, a abdicare, a dire anche addio alla propria città. Se ne è parlato spesso. Roma non è madre ospitale, non è stata la Romagna Felix che ha sostenuto e promosso i propri gruppi, anzi. Con mille tentativi – dalle occupazioni al “consorzio” Area06, di cui peraltro ricordo bene lo spirito d’origine; dai festival alle poche, sparute, produzioni o co-produzioni – gli artisti romani di quella generazione hanno trovato altrove i giusti riconoscimenti. Si possono fare tanti esempi, ma teniamoci su Roberto. Lasciare la città, lo ricordo, è stato per lui non facile per un romano e romanista, come lui. Roberto è un artista di Roma, la città è nel suo Dna, eppure il suo slancio verso la capitale, lui è sempre generosamente presente in ogni iniziativa, non è stato adeguatamente ricambiato.

L’addio a Roma, diventato definitivo nel 2010, ha portato, però, alla direzione del Teatro San Martino di Bologna. Altro passo interessantissimo, e altro sostanziale esito contraddittorio.

Latini arriva al San Martino nel 2007. A Bologna si era certo affievolita, ma non cancellata – non lo è nemmeno oggi – la memoria del teatro San Leonardo diventato fucina di creazione e di pensiero con Leo de Berardinis, ma Roberto, che pure quell’aria aveva respirato, giunge alla direzione del San Martino con grande determinazione e entusiasmo. Come rinato, Latini sperimenta, prova, scopre. Va alla caccia dei suoi nuovi maestri: con pochissimi mezzi, ma con ottimi collaboratori, riesce a fare del San Martino un nuovo punto di riferimento cittadino. Con Lezioni prestigiose, incontri, spettacoli, serate d’onore (un patrimonio che andrebbe tra l’altro ripescato e riportato alla luce).

Ma l’esperienza durerà poco, appena tre anni: nel 2010 annuncia la sospensione delle attività, che porterà poi alla chiusura. In una intervista per KLP, firmata da Azzurra d’Agostino (del 29 aprile 2012) Latini dice: «Rinunciamo alla gestione, al tempo, all’attesa di questo spazio. Smettiamo l’aspirazione di fornire un servizio: non siamo più nelle condizioni di prestarci a una misura che non è più la nostra. Non abbiamo fatto tutto il possibile per mantenere aperti, abbiamo fatto solo il nostro lavoro. La cosa che non funziona è considerare queste realtà come un prodotto, e chi va in teatro come un cliente. Lo spettacolo come prodotto da vendere a dei clienti, in un take-away della cultura dove non c’è un poi, ma solo il momento della fruizione. Il teatro dovrebbe essere una comunità evidente, non qualcosa ‘da consumarsi preferibilmente entro il’. Ci sono persone che prendono stipendi per queste responsabilità, e quindi se scelgono un festival di pochi giorni invece che il lungo periodo, noi scegliamo il lungo periodo e non la fruizione mordi e fuggi. Il teatro è una condizione, qualcosa che c’è, da cui attingere. Non ho preteso che noi fossimo la soluzione per Bologna di tutto questo, ma confido che ci sia un progetto duraturo e possa io stesso ricondurmi a un sistema teatrale».

Le dinamiche bolognesi sono certo abbiano portato Roberto a interrogarsi sempre più non solo sul senso profondo della sua attività e di quella del gruppo Fortebraccio teatro, ma anche sulle dinamiche di sistema. Dichiara sul magazine ateatro.it il 12 ottobre 2010:

«Ho annunciato la sospensione della programmazione 2010-2011 per motivi principalmente economici. Questa è però una conseguenza di qualcosa di altro che è invece quanto mi piacerebbe potesse diventare argomento di discussione. Tutti i problemi di gestione della cultura sono legati ad un problema semplicemente culturale. Il Teatro San Martino è soltanto l’ultima conseguenza di questa politica. E la politica dovrebbe essere l’applicazione di un pensiero. Non si possono pensare le istituzioni come un interlocutore assistenziale, né le istituzioni possono trovarsi a risolvere, questione per questione, tutti quelli che nel tempo potrebbero reclamare una attenzione. Bisognerebbe smetterla di inventare, volta per volta, soluzioni provvisorie. Bisognerebbe capire che sono forse maturi i tempi perché un pensiero più grande possa diventare esempio per altri pensieri. L’esperienza delle nostre ultime tre stagioni mi piacerebbe fosse considerata come patrimonio comune, come anche comune mi piacerebbe potesse essere il pensiero applicato alla gestione del patrimonio culturale. Ho cercato di spiegare che non vogliamo essere salvati con una qualche dose di miracolo. Siamo un gruppo di persone che in questi anni si è concentrato sulla buona riuscita di un progetto che si chiama condivisione. Il Teatro è di tutti, non di chi se lo può permettere. Contrariamente, si rischia il paradosso che trasforma i teatri in aziende private in cui gli spettatori diventano i clienti. Questo dovrebbe essere culturalmente inaccettabile e inaccettato (…) Bisognerebbe smetterla di risolvere problemi. Bisognerebbe agire con nettezza e con coraggio un ripensamento generale. Non diventare complici di questo sistema che ha ammesso ormai da anni i suoi limiti fondamentali. Solo attraverso la potenza delle idee non distratte dalla convenienza e dai miraggi di qualsiasi stratagemma, sarà possibile una evoluzione. La misura unica di una società è la sua capacità di leggersi e di scriversi. L’espressione di sé è il Teatro. Potremmo avere, tutti insieme, più rispetto per noi stessi».

Solidarietà, rivendicazioni, tutele, coraggio. Quanto mai attuale, no?

La parola “rispetto”, la parola “responsabilità”, tornano spesso negli scritti e nelle interviste di Latini. Recentemente, in un incontro fatto a Mantova, mi ha spiegato: «il teatro è una responsabilità, una responsabilità che voglio condividere con gli spettatori. Incontrarsi non è un atto innocente. È l’evoluzione dell’appuntamento di Perla. Per chi? Con chi? Come?».

E parla anche di fiducia: «dove è che gli spettatori si fidano? Quanti spettacoli si fidano dello spettatore? E tra attori e registi? Quando gli attori si fidano dei registi? E i registi degli attori? Io sono uno che si fida degli spettatori»

(Qui vanno fatte due note a piè pagina: la prima è il riferimento “Guardare non è un atto innocente”, di Romeo Castellucci, diventato slogan di un Santarcangelo Festival . La seconda è il concetto di “appuntamento” evocato da Perla Peragallo, una lezione di teatro che rimane indelebile in Latini: “ogni sera, alle nove, hai un appuntamento con il pubblico”).

Passano gli anni, Fortebraccio teatro continua a produrre, a consolidarsi nell’immaginario collettivo. Riscuote consensi.

E sulla scia di questi consensi arriva anche il terzo “incidente”. Per ragionarci dobbiamo andare a Chiusi, al Festival Orizzonti. Siamo nel 2017, Latini riceve l’incarico di dar vita a una compagnia stabile – anche qui ci vorrebbe un’altra nota, sulle compagnie stabili, ma lascio stare per carità di patria – e si dà subito da fare. Pubblica un bando. Riceve centinaia di risposte. La cosa si fa complicata. Mi racconta: «Sono stato coinvolto in un progetto che volevo far saltare per senso di responsabilità e oggettiva impossibilità, quando sono arrivate più di 450 domande per i 7 posti disponibili (…) Messa per come l’avevo capita inizialmente, avrei dovuto incontrare i selezionati al primo giorno di lavoro; visto per come è diventata, sono andato a Chiusi a prendermi tutte le domande arrivate e ho impiegato 5 giorni per leggere e rileggere le centinaia di richieste».

La cosa non va. Non si capisce bene la situazione. Spiega Latini: «… Non ho parole per descrivere la violenza emotiva di questa situazione e il dispiacere profondo che mortifica. Mi dispiace essere stato complice involontario e ingenuo di questa storia, non aver potuto garantire io per tutti, me compreso, la serietà del lavoro.  Siamo al punto che mi sono dimesso, anche se non ha valore nella tempistica dei fatti, ma è importante a questo punto per me e per la mia dignità. Dimesso dalla situazione, dal meccanismo, dal pensiero e da qualsiasi altro tentativo presunto, supposto o ulteriormente immaginato di proseguire (…). Non avevo personalmente firmato nemmeno un contratto e avrei rinunciato comunque a qualsiasi paga pur di alleviare la vergogna che mi vergogna davanti alle centinaia di richieste che sono arrivate, davanti ai ragazzi selezionati e davanti a me stesso. Scusate. Spero che ci si possa vergognare tutti fino in fondo e da quel fondo cominciare a scavare».

Ecco l’Etica, la serietà del percorso di Roberto. Il pudore e la vergogna, per gli altri. La solidarietà con i colleghi.

Ancora una volta, Latini sembra essere rifiutato dal sistema, è certo un elemento disturbante, poco inquadrabile, ma al tempo stesso è una coscienza critica, intellettuale, che con la sua sola presenza denuncia lo stato delle cose. L’episodio di Chiusi, comporta una riflessione sul sistema pedagogico nazionale. Roberto Latini denuncia la pratica del workshop a tutti costi, del laboratorio coatto, della frenesia autoformativa.

Spiega: «Viviamo un sistema di formazione sballato, i laboratori, non c’è misura: pagano cifre assurde per fare tre giorni di laboratorio. Che dovrebbero essere le occasioni per farsi vedere, per uno spettacolo che forse si farà. È tutto molto triste. Personalmente accetto solo proposte in cui sono le istituzioni a pagare e non gli iscritti. Mi sembra un atto politico, contro questo sistema che produce una quantità eccessiva di attori – ogni anno sono immessi giovani diplomati in un non-mercato. E ci sono persone che a 45 vivono come quando ne avevano 25. Questo stare in attesa che succeda qualcosa. Lucignolo che aspetta mezzanotte per andarsene: ecco, ci sono più generazioni che hanno aspettato il carro per il paese dei balocchi. Passa il tempo, e la mezzanotte non arriva, oppure è arrivata e non l’abbiamo riconosciuta».

Latini cercherà, poi, di “recuperare” alcuni dei partecipanti a quella compagnia stabile che stabile non è mai stata. Si assume la responsabilità, ancora una volta, per un sistema che non va.

Anche di tutto questo risentono i lavori di Roberto degli ultimi anni. Sono esperimenti ad esempio assolutamente anti-economici, volutamente fuori mercato, come è stato per fare un solo esempio con Metamorfosi: un progetto che si staglia, volutamente, per la sua assoluta anti-economicità. Uno spettacolo per uno spettatore alla volta (non è una novità: basti pensare al Teatro del Lemming o a Vargas) diventa simbolo o un paradosso impossibile, un grido contro le “regole del mercato” che vanno tanto di moda. E un lavoro con tanti attori è in netta controtendenza rispetto a una scena in cui prolificano sempre più i grandi nomi. La pretesa sostenibilità economica del teatro, che gratifica i campioni di incasso e di intrattenimento, rischia di far piazza pulita di tutto questo. I poeti della scena come Latini faticano non poco. Va bene così? Il teatro deve inchinarsi sempre al botteghino? Ce lo siamo chiesti molto, in questo post lockdown, ma Roberto già si e ci interrogava ben prima.  Latini fa poesia. Che spazio c’è per la poesia?

Come si è visto in un altro lavoro cui voglio fare cenno, quel Teatro Comico che ha segnato l’arrivo di Roberto Latini al Piccolo Teatro di Milano. Ovvero nel centro del sistema.

Reduce dal clamoroso e discusso Servitore di due padroni diretto da Antonio Latella, in cui era, per l’appunto, un bianchissimo “Arlecchi-no”, Latini si è trovato a confrontarsi ancora con la Commedia dell’Arte con quel testo scomodo che è Il Teatro Comico. E lo fa prendendo di mira proprio l’icona di Arlecchino, nella casa di Strehler e di Ferruccio Soleri (confesserà, Roberto, di essere andato alla serata di addio del grande Soleri). Il lavoro però si arricchisce più di tanti riferimenti allo storico Scaramouche di Leo de Berardinis che non a quelle del maestro milanese.

Per lo spettacolo Latini convoca quelle che definisce “le persone che conosco da più tempo”, ovvero la compagnia di Leo – Elena Bucci, Marco Sgrosso, Marco Manchisi, etc – una chiamata alle armi di altissimo valore. Attori e attrici che hanno visto Latini alla scuola di Perla, che lo hanno visto fare le scene-saggio che la Peragallo chiedeva ai suoi allievi. Cosi come al San Martino, Roberto Latini ospitò i riferimenti di una cultura teatrale alternativa, così, al Piccolo, il regista si fa “mentore” di una scuola teatrale che con l’istituzione teatrale milanese aveva poco o nulla a che fare.

Ma anche questo spettacolo sarà vittima del sistema: non fosse altro perché non fa tournée. Non gira.  Allestito e smontato dopo le repliche milanesi con una sola “uscita” esterna.

E arrivo così all’ultimo “inciampo”, all’ultimo incidente che è marchio a fuoco della contraddizione di questo nostro sistema teatrale.

La compagnia Fortebraccio Teatro è finanziata dal Fus mam nel 2019, venti anni dopo, Latini, Misiti, Mugnai, rinunciano al finanziamento. Preferiscono dire di no.

La rinuncia ai finanziamenti porterà, poi, la compagnia Fortebraccio a collaborare con la compagnia Lombardi/Tiezzi, artisti con cui peraltro Latini ha spesso lavorato.

In una intervista a Enrico Pastore dello scorso anno, Latini spiega al giornalista i motivi di questa scelta: «Motivi etici ed economici. È paradossale anche il paradosso. Penso che la condizione dei contributi ministeriali sia completamente da rivedere nei suoi fondamentali. Si sta cercando da anni di migliorare, certamente qualcosa è stato fatto, ma credo che ci siano vizi di fondo a compromettere ogni sforzo. Il più importante è, a parer mio, che la traduzione in milaeuro delle domande viene parametrata sulla capacità di deficit che ogni compagnia è in grado di presentare. Non viene considerata davvero l’artisticità. Abbiamo scelto di rimanere in quello che sentiamo, non in quello che sarebbe adatto agli algoritmi del ministero. Penso che questo sia il pericolo più grande e non abbiamo accettato di rimanere nella pericolosità della convenienza. Il teatro andrebbe sollecitato, non diminuito nelle sue prospettive…».

Ecco il conclamanto fallimento del teatro italiano. Non di Roberto, che naturalmente continua ad avere successo, a fare la sua ricerca, a condividere con altri lavori di grande, profonda bellezza. In quell’incontro mantovano già citato ha raccontato:

«Cerco di resistere il più possibile. So una verità, la mia, simile a quella di tante altre persone del mio tempo. Ho visto tanta gente brava smettere. Gente capace, che non ha avuto il caso, la fortuna, il destino di tante situazioni, o non ha potuto resistere. Sono sfinito. Arrivi al Piccolo, sai che è successo qualcosa, lo so. Ma so di non essere stato estratto a sorte. Ricordo tutte le serate della mia vita, le cantine, gli spettacoli fatti per strada, all’ex bocciodromo. Ricordo i centri sociali. Mi ricordo il freddo. A teatro ho avuto freddo».

Ecco, dunque, la questione etica. Ecco l’etica antica dei comici, degli scavalcamontagne, di coloro che hanno dedicato e dedicano la vita al teatro. Etica professionale, rispetto profondo del proprio ruolo di attore, e del proprio compito nel contesto sociale.

Nel suo percorso teatrale, l’essenza del lavoro di Roberto Latini non è solo quella dello straordinario performer, del poeta, del drammaturgo della scena. Vi è, incarnato in lui, e nella compagnia Fortebraccio, un senso di consapevolezza profonda, un portare sulla propria pelle le contraddizioni di un teatro vittima di forti storture. Ora Roberto è un artista guida, un maestro del nostro tempo, un pedagogo alternativo e generoso. Sempre nel rispetto dei colleghi e delle colleghe. Ha tessuto trame invisibili tra i grandi protagonisti della scena di ricerca italiana – Perla Peragallo, Leo De Berardinis, Carmelo Bene – ha fatto incontrare generazioni diverse di interpreti, ha scandagliato drammaturgie consolidate e contermporanee, ha formato attorno a sé una famiglia di attori e attrici che convergono nel suo teatro, e infine ha creato un pubblico, spettatori e spettatrici fedeli e attenti. Ma, nonostante tutto, sembra che il sistema non registri queste radici profonde, questo percorso fatto, questi fallimenti superati. Lui, Roberto, resta per fortuna con i piedi fortemente piantati sulle nuvole.

Oggi più che mai sappiamo che qualcosa deve cambiare. Abbiamo passato il lockdown carichi di buoni propositi, dicendo e scrivendo che qualcosa sarebbe dovuta cambiare. Non si possono più essere accettati, come criteri, le alzate di sipario, i dati, gli algoritmi, i numeri. Non basta lo streaming né l’eco della tv. Serve poesia. Quella poesia che nasce anche dalla sofferenza, dai “fallimenti”, dal silenzio e dal non detto.

La poesia, per fortuna, non si ferma, non ci sono incidenti che possano ostacolare la via dell’arte. Roberto Latini lo sa.

(La foto di copertina è di Fabio Lovino)

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