Teatro
In “Resistenze” di Oltreunpo’ Teatro la libertà è partecipazione
La compagnia “Oltreunpo’ teatro” è tornata in scena dopo la fatica de “La condizione umana” e ha riproposto sabato e domenica 10 e 11 febbraio, sempre per la regia di Marco Oliva, lo spettacolo “Resistenze” a Villa Litta a Milano. Era già andato in scena l’anno scorso a Varese, ritornerà poi a Voghera domenica 18 febbraio e il 20 aprile a Bresso.
A dispetto del nome che può trarre in inganno, la rappresentazione tratta solo relativamente della resistenza italiana. Non si parla tanto del fenomeno storico dei partigiani, quanto della capacità atemporale di resistere alle condizioni avverse e alle ingiustizie, nei luoghi in cui ci troviamo e nella condizione sociale con la quale cresciamo. Se la lotta fu contro i fascisti durante la seconda guerra mondiale, questa serve da confronto con oggi in cui è l’ecologia la battaglia che più richiede unione, impegno e sacrificio, cioè resistenza; questo è il messaggio palese su cui si appoggia lo spettacolo, che è di ben più ampio respiro.
Non è possibile slegare il giudizio sull’opera dal contesto in cui è stata rappresentata, una grande sala di Villa Litta in cui le sedie sono disposte in doppia fila lungo il semiperimetro della stanza e che fanno trovare lo spettatore praticamente a contatto con gli attori; due colonne lisce e granitiche incorniciano un telo su cui verranno proiettate delle immagini. Lo spettacolo si apre con Martino Iacchetti che accompagna la sua bella voce con la chitarra e cantando “Bartali” infonde coraggio ad Elena Martelli la quale, saltata su una bicicletta di scena, interpreta Carla, una staffetta partigiana che nasconde dei dispacci in grembo, vicino alle viscere che si contorcono dalla paura nel passare la pattuglia al posto di blocco.
È il primo contatto col concetto di resistenza, il più comune a tutti, legato alla liberazione italiana. Questo concetto viene subito esteso a tempi più recenti con l’ecologista onduregna Berta Càceres, interpretata da Michela Marongiu; il suo megafono ci parla del rapporto che ha con la propria terra; quanto per lei essa sia molto più che un suolo da calpestare e come sia insidiata dagli interessi economici, contro i quali scopriamo, mentre l’attrice lascia posto alla proiezione del vero volto della Càceres, ha perso la vita.
Ce lo spiega Manola Vignato, che sarà la voce narrante; cuce tra loro le varie scene, fa da collante nella miscela di canzoni, parole proiettate e parole recitate. Se la resistenza è il tema trattato, il campo dove si applica la capacità di resistere è la terra, che infatti compare in scena personificata da Elena Martelli. Terra che è origine di vita, humus come uomo; ma anche terra per coltivare e che quindi è minacciata dall’inquinamento, un suolo sfruttato, consumato. Poi terra come patria da difendere dall’invasore tedesco, come ricorda Martino Iacchetti che per un momento dismette la chitarra per impugnare il moschetto. Oppure terra che non sentiamo più nostra, non ci può più accogliere e allora dobbiamo emigrare come suggerisce l’africana di Michela Marongiu. Lo stato di incertezza in cui siamo posti fronteggiando il nemico è simile a una partenza senza più ritorno; le paure si riconducono entrambe all’incerto, all’ignoto, ma anche alla speranza di un futuro migliore.
Questi personaggi che sembrano resistere e lottare per cause così lontane da noi e tra loro, in realtà sono frutti della stessa pianta, la lotta appassionata per la giustizia e l’idea che la vita non sia confinata alla sola propria egoistica esistenza, ma affinché sia vita debba essere libera e svolgersi nel luogo che desideriamo, un luogo che possiamo chiamare patria oppure più semplicemente casa. Lo dice Carla, non è triste morire per questa idea, è un sacrifico che si è disposti a compiere, perché si muore per qualcosa di più vasto che noi stessi, qualcosa che ci sopravvivrà.
Se parliamo di partigiani la memoria rimanda subito alla lotta per la liberazione dal nazifascismo, a quelle bande di guerriglieri che aiutate dagli alleati posero fine all’ultima sacca di dittatura chiamata Repubblica Sociale Italiana. Però è forse un’eccessiva semplificazione del termine, infatti partigiano deriva dal prendere parte. In quel caso si trattava di prendere posizione contro il fascismo e per la libertà, ma il primo merito dello spettacolo è ricordarci che i partigiani sono anche coloro i quali prendono parte per altre cause, quelle ecologiche, quelle dello sfruttamento del territorio; non si entra nel merito su quanto sia importante difendere l’ambiente da un inceneritore o da una centrale idroelettrica, che da qualche parte dovranno pur essere costruiti, ma si pone l’accento più sull’ingiustizia dell’imposizione.
O meglio, in ogni epoca c’è il rischio di subire nella terra natia una prepotenza. Infatti la patria è un altro tema che torna nello spettacolo, per esempio con la canzone “Viva l’italia”; la storia si svolge sempre in una regione che non è definita da confini geografici, ma confini ideologici. All’epoca del CLN l’Italia era divisa eppure si lottava per essa, per riunificarla nella libertà. Non è una definizione giuridica la patria, non può esserlo nemmeno geografica perché quasi non abbiamo idea dove in Africa o in Sudamerica lottano contro lo sfruttamento delle multinazionali i partigiani di quei luoghi. La nozione di patria è un’idea che raccoglie quei sentimenti figli della terra dove nasciamo e di cui portiamo inevitabilmente i segni, ma se quella terra è vilipesa e stravolta o siamo travolti dalle angherie, come la ragazza che si sente costretta a emigrare, dobbiamo rimetterci alla speranza di trovare la nostra casa, la libertà da un’altra parte. Oppure, se non siamo soli e soverchiati, possiamo unirci per riportare in essa la giustizia.
Questo è il concetto fondamentale che rimane al riaccendersi delle luci. Il dovere di prendere una parte. È l’indifferenza verso i problemi che ora non sembrano toccarci che poi porta alle tragedie dell’uomo, non possiamo credere nella fatalità. La colpa non è solo di pochi prepotenti, ma anche della grande massa che non parteggia, “il peso morto della storia”.
Il profondo senso di immersione nella narrazione per lo spettatore, già a ridosso della scena, si rafforza perché lo spettacolo si svolge sullo stesso pavimento dove egli siede e in uno spazio che con l’avvicendarsi degli attori, riempito dalle note delle canzoni diviene quasi intimo, raccolto. Anche la narratrice sembra raccontarci le vicende vis a vis in un dialogo personale.
C’è sempre la sensazione di leggere fatti lontani nel tempo o nei luoghi mentre sui libri di storia o sui quotidiani si leggono le azioni di pochi giusti. Invece questo tipo di teatro riesce ad annullare il distacco, riesce a farci sentire finalmente parte delle loro lotte e ci fa chiedere: perché non lottare anche noi contro le prevaricazioni? Il pubblico non può rimanere abulico di fronte alle ingiustizie e questo è esplicito nel finale quando la narratrice salta sulla bicicletta con Carla per pedalare insieme verso un futuro migliore, perché la resistenza è un fenomeno attivo, libertà è partecipazione, bisogna prendere parte e anche noi dobbiamo essere partigiani.
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