Teatro
Per Vitaliano Trevisan
Se ne è andato Vitaliano Trevisan. Un gigante della nostra cultura. Non sta certo a me ricordare la bellezza adamantina del suo contributo alla letteratura italiana e internazionale. Basti pensare a quella scrittura precisa, nitida, in cui la punteggiatura – ogni virgola, ogni singola virgola – aveva senso profondo e necessità d’essere. Cerco, però, di rendergli merito di quanto ha fatto per il Teatro nel volgere di una ventina d’anni.
Ho avuto la fortuna, direi l’onore, di essere annoverato tra i suoi amici. Vitaliano era persona schiva, tesa, un misantropo si potrebbe dire, usando un luogo comune su cui avrebbe riso. Eppure, nonostante quella sua misantropia evidente, c’era e c’è una comunità di lettori, teatranti, amici che hanno amato e sostenuto quest’uomo nel suo viaggio attraverso i palcoscenici. Vitaliano, è noto, aveva fatto mille mestieri prima di arrivare alla scrittura. E considerava lo scrivere un lavoro, serio, preciso, da cui trarre le risorse economiche necessarie a vivere. Niente slanci lirici, niente intellettualismi: ti piace quel testo? Lo paghi.
Per questa attitudine, forse, amava gli attori e le attrici, perché dovevano lavorare, semplicemente. Mentre diffidava sistematicamente dei registi, degli intellettualismi creativi. Dell’Attore apprezzava l’esserci, in presenza, il metterci la faccia, il lavorare a favore del testo. E prediligeva i grandi attori e le grandi attrici, coloro che possedevano la “tecnica”, quanti sapevano cosa fare su un palco. Oppure preferiva lavorare con gli amatoriali, con i non professionisti, con i giovani che non erano “contaminati” da vizi e vezzi.
Per quel che mi riguarda, ora, oggi, con l’assurdo vuoto lasciato dalla sua morte, mi ritrovo ad affastellare ricordi: qualche pranzo alla trattoria Righetti di Vicenza, a mangiare il baccalà; stare seduti su una panchina battuta da un vento gelido, di fronte alla stazione, ed ascoltarlo leggere un nuovo testo in anteprima; intervistarlo in pubblico (l’ultima volta nel 2018, a Roma, in una iniziativa promossa dalla Associazione PAV per giovani attori e attrici) e vederlo tremare di tensione all’inizio, chiuso, ritratto su se stesso, lo sguardo provocatorio, e poi pian piano ammorbidirsi, sorridere, lasciarsi andare a considerazioni di splendida essenzialità. Su cosa? Sul lavoro dello scrivere, sul teatro, sull’arte – parola orribile!
Ho visto i primi testi messi in scena, quelli che lo hanno “lanciato” (immagino, a sentire questo termine, la sua espressione dissacrante): ricordo bene la riscrittura di “Giulietta”, con la regia di Valter Malosti e l’interpretazione dapprima di Michela Cescon e, a distanza di anni, nella bella ripresa di Roberta Caronia. Vidi il famoso “Il lavoro rende liberi”, due atti unici diretti da Toni Servillo con uno straordinario cast. Spettacoli andati molto bene, belli, densi, eppure lui, Vitaliano, aveva comunque qualcosa da ridire.
Ho avuto la fortuna di godere della sua stima, o forse del fatto che con me si sentisse sereno, perché nel 2007 fui chiamato a dirigere il Festival Teatri delle Mura di Padova e per tre anni – prima che un assessorino in cerca di notorietà e un attorino frustrato non fecero fallire il progetto – producemmo, con pochissimi mezzi, tre suoi allestimenti. Lo incontrai, lui era totalmente ostile, poi gli dissi che era nostra intenzione non solo prenderlo sul serio, ma fare di tutto perché i suoi testi vedessero la scena. Si tranquillizzò, si sentì riconosciuto e stimato come doveva essere. Le trattative, poi, non furono per nulla facili, ma per tre anni è stato ospite di punta del festival, con tre lavori. Il primo fu il poi noto “Solo RH”, con un attore straordinario come Roberto Herlitzka (che sottotitolo: “Una lettura?”); poi “Tre drammi brevi”, con Fulvio Falzarano, e infine, nel 2009, una divertentissima prima versione di “Una notte in Tunisia”, interpretato da un disponibilissimo Tiziano Scarpa, altra eccellenza della letteratura, con Carla Chiarelli e Fabrizio Parenti. E in particolare, vederli in scena, Trevisan e Scarpa, uno nei panni di Craxi e l’altro in quelli del fidato Cecchin, fu esilarante.
Ecco, Cecchin: nome che Vitaliano ha voluto dare a una vera e propria nuova “maschera” da Commedia dell’Arte che attraversa molti suoi testi. In quella figura torna il suo rapporto con la città di Vicenza, di amore e odio a dir poco. Paragoniamo spesso, ed è un collegamento immediato, il teatro di Trevisan a quello di un altro gigantesco misantropo: Thomas Bernhard, la cui acredine nei confronti di Vienna è ben nota. Certo, esiste quell’attitudine caratteriale, ma c’è in entrambi il gusto millimetrico per la parola scelta, per una scrittura che è al tempo stesso estremamente celebrale eppure irrorata di corporeità, di sentimenti, di umori. Così come si paragona Trevisan a Beckett, o Harold Pinter: con quei dialoghi sospesi in un nulla cosmico. Ma lui, e me lo confessò tempo addietro, aveva una predilezione per il meno noto Joe Orton: ammirava molto lo spirito black, il gusto livido e macabro del commediografo inglese.
Di fatto, però, anche se possiamo paragonarlo a questi precedenti storici, Vitaliano Trevisan non era un drammaturgo epigonale, tanto meno un pedissequo imitatore. Anzi, aveva il suo stile, il suo modo, il suo mondo. Di fronte alla scena prospettica del bellissimo Teatro Olimpico di Vicenza, del Palladio e dello Scamozzi, gli chiesi: “tu che ci faresti qui?” e lui caustico: “un bel telo nero a coprire tutto”. Eppure Vitaliano aveva un amore per Carlo Goldoni, il “bonario” avvocato che ha riformato la drammaturgia italiana. Ne apprezzava la cattiveria. E forse per questo riscrisse “Gli Innamorati”, messo in scena da André Ruth Shammah e, con esiti meravigliosi, anche il meno noto “La bancarotta”, impregnando il testo goldoniano delle nevrosi e delle paturnie del nordest leghista e produttivo (lo mise in scena Michele De Vita Conti). Dicevamo degli Attori, di cui si fidava. Per citarne alcuni: Riccardo Festa ha diretto e interpretato una bellissima riduzione de “I 15mila passi”, con la musica dal vivo di Daniele Roccato; Matteo Cremon è stato, recentemente, straordinario protagonista de “Oscillazioni”, con la regia di Valentina Brusaferro. E Alessandro Gassmann chiese a Vitaliano di “adattare” da par suo, il Riccardo III di Shakespeare, che divenne un R3 capace di mescolare l’originale shakespeariano a Frankestein. A Genova, nell’ambito della “Rassegna di Nuova Drammaturgia”, al Teatro Nazionale (con cui oggi collaboro) presentammo nel 2018 il suo aguzzo e melanconico “Il cerchio rosso”, con la bella regia di Massimo Mesciulam e un compatto gruppo di interpreti: storia di dropout nella Vicenza degli anni Settanta e Ottanta, ma storia anche di una generazione che si è dissipata nella droga (e di cui Vitaliano faceva parte: allo spettacolo vennero i veri protagonisti di quelle storie, che si rividero in scena). Da ultimo, il CTB di Brescia ha allestito “Il Delirio del Particolare – ein kammerspiel”, testo vincitore del Premio Riccione, con la regia di Giorgio Sangati e la meravigliosa Maria Paiato nei panni di una vedova, affiancata dal “Cecchin” di Alessandro Mor e dal “Professor Bernardi” (nome peraltro bernardiano) di Carlo Valli. Non ho visto questo spettacolo, ma so che è andato benissimo.
Il teatro di Trevisan, insomma, è una delle cose migliori prodotte dalla drammaturgia europea di questo secolo. La capacità di tenere un ritmo dialogico altissimo, il gusto per una lingua di grande spessore e bellezza, la dote di saper creare personaggi complessi e al tempo stesso immediati, la carica di critica sociale, lo scavo sistematico nel non-detto, sono elementi sui quali occorrerà riflettere e tornare (spero anche in scena)
E quel testo, il “Delirio del particolare” è stata l’ultima occasione, grazie alla quale ci siamo sentiti: voleva spedirmi il libro edito da Oligo, di cui era molto fiero.
Gli ultimi mesi sono stati particolarmente faticosi, per tutti, ma non oso immaginare per lui. Quel misto di fierezza e timidezza, di genialità e sofferenza, di dipendenze e paure, di slanci e ironie era profondamente a rischio, in un equilibrio precario che è sembrato a molti vacillare. Lui sempre ai margini, sempre guardingo, sempre pronto ad attaccare in una vita che non deve essere stata facile.
Poi c’è stato l’ASO, l’accertamento sanitario obbligatorio, le sue posizioni no-vax, le sue polemiche reali e virtuali. Ma questo forse non importa. Vitaliano Trevisan se ne è andato. Restano le sue opere, resta il suo teatro. Resta il dolore.
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