Teatro

Il “trigger warning” come stile di vita

20 Aprile 2020

Negli ultimi giorni, Milo Rau è stato molto presente sui media italiani: intervistato da Repubblica e Corriere della Sera, ospite di un incontro-dialogo con Giorgio Barberio Corsetti sulla piattaforma online del Teatro di Roma, il regista svizzero ha rilanciato temi e prospettive a lui cari. Quello che segue è il suo nuovo articolo che cortesemente ci affida, nella traduzione di Riccardo Benedy Raschi.  Vale la pena, forse, specificare che il “trigger warning” consiste in uno speciale “avviso”, una raccomandazione che viene normalmente utilizzata come pre-avvertenza, quasi un furbesco “mettere le mani avanti” per prevenire eventuali, spiacevole conseguenze.  (Andrea Porcheddu)

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Del perché il più grande desiderio dell’ego postmoderno si è finalmente avverato

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Il tempo del coronavirus è il tempo dei veggenti, ma ognuno vede solo quello che vuole vedere. Chi da sempre sostiene la bellezza dello Stato forte, nelle ultime settimane pensa di aver trovato delle conferme. Chi odia la propria famiglia ha temuto l’avvento di un’epoca autoritaria della prossimità forzata. Alcuni invece hanno parlato di solidarietà vedendo qualcuno applaudire dai balconi, mentre altri non vedevano che accumulatori di carta igienica ovunque.

Ma il cessato allarme non ha tardato ad arrivare. Il re Capitalismo non è nudo: ha solo abbassato un po’ i pantaloni per farsi infilare i piani di aiuto nel culo. Ragion per cui già comincia a serpeggiare la retorica del sia l’uno che l’altro: neoliberismo sì, ma con respiratori per tutti, per favore. Va bene l’industria petrolifera, ma che sia semi-nazionalizzata, prego. Nazionalismo autoritario? Ok, purché sia “civile” – come ha accennato il sociologo Heinz Büde in un’intervista.

Questo sviluppo è il più probabile sul piano strutturale, eppure anche il più deplorevole su quello dialettico. Al contrario, la retorica del conflitto dell’uno contro l’altro è molto più avvincente. Giorgio Agamben, ad esempio, seduto nella sua cameretta del Grand Hotel Abisso, ha intravisto l’incombere di un nuovo fascismo; Slavoj Zizek, dal canto suo, la possibilità di un comunismo rinnovato. Ma una forma di welfare limitata su scala nazionale e fondata sulla flessibilità dello smart working può davvero dirsi socialista – o semplicemente “nazionalsocialista”?

No, carissimi, e forse non c’è nulla di tragico! In verità il coronavirus ci ha reso solo più simili a noi stessi. Il cittadino occidentale, che per qualche giorno ha scorto all’orizzonte un’era della rinascita spirituale ed etica, è rimasto incatenato alle proprie paure. Dieci anni di shitstorm e di discorsi sul politicamente corretto hanno cavalcato i due ronzini Allarmismo e Moralismo non per sfinirli, ma per tenerli in forma. Il desiderio narcisistico di spazi sicuri è stato per vent’anni il cavallo di battaglia di politiche identitarie a destra e a sinistra; ora è diventato ideologia di Stato su basi epidemiologiche. Il coronavirus ha stabilito così il trigger warning, l’avvertenza, come stile di vita.

E si potrebbe continuare: il grande desiderio dell’ego postmoderno di diventare una potenziale vittima si è finalmente avverato. Ma per fortuna non del tutto: mentre noi intellettuali ce ne stiamo belli seduti a casa a guardare per la quinta o sesta volta La peste di Camus in streaming e a sottoscrivere appelli alla solidarietà, la globalizzazione della sofferenza ha subito un’accelerazione, rendendosi soprattutto ancor più unilaterale. Chi non può permettersi la quarantena – diciamo quindi, per prudenza, circa l’80% dell’umanità – finisce in pasto ai cani ancor più velocemente di prima.

E ora che si fa? “Oggi discoteca, domani rivoluzione, dopodomani gita in campagna”, scrisse ormai quarant’anni fa il grande Thomas Meinecke, la cui band, ironicamente, si chiama Freiwillige Selbstkontrolle (“Autocontrollo Volontario”). Oggi suona quasi come l’etichetta di un’epoca. Ma al buon vecchio Spirito del Mondo non piacciono gli spazi sicuri. E temo che quello, prima o poi, verrà a trovarci per interrompere lo smart working. Stavolta senza trigger warning.

[Traduzione di Riccardo Benedy Raschi]

 

Nella immagine di copertina di Armin Smailovic un momento dell’allestimento di La Rivolta della DignitàThe new Gospel al Teatro Argentina di Roma. Si ringrazia Giacomo Bisordi.

 

 

 

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