Teatro
Milo Rau: perché il teatro?
Quella che segue è l’introduzione che Milo Rau ha scritto per il suo libro Why Theatre?
Si tratta di una raccolta di 100 contributi di artisti e intellettuali di tutto il mondo sul teatro, sullo stato delle arti performative nel 2020. Il libro è in inglese, ed è però una carrellata di pensieri che attraversano lo spazio, i confini, le lingue, le barriere per cogliere una possibile essenza del fare e del vedere teatro. Gentilmente, con l’aiuto di Giacomo Bisordi, che ha curato la traduzione, Milo Rau lascia a GliStatiGenerali il privilegio di pubblicare una versione italiana della sua introduzione.
E sarebbe bello cogliere l’occasione per pensare a una “edizione italiana”, un “Perché Teatro?” tutto nostro, in cui coinvolgere intellettuali, operatori, artisti per capire assieme quale sia il senso, il valore del teatro oggi in Italia. Fare il punto – e la prospettiva – di una pratica creativa, artistica, sociale che necessita senza dubbio di riaffermarsi e rilanciarsi. In questa fase di crisi, e di cambiamento possibile (si spera in meglio) delle condizioni materiali e delle culture teatrali, sembra sempre più urgente concentrarsi, raccogliere i pensieri e le esperienze, al di là delle mode e dei facili entusiasmi (o delle altrettanto facili scontentezze) per tracciare progetti in divenire, per capire cosa sarà il teatro da qui ai prossimi anni, per cogliere l’essenza di un’arte che non può più accontentarsi della solita routine né degli estemporanei protagonisti che rispondono alle fugaci tendenze del momento.
Allora, intanto, ecco Milo Rau, prendiamo il suo Why Theatre? pubblicato con NTGENT.
E magari, se ci fosse un editore incuriosito, cominciamo assieme a pensare a un Perché Teatro? in chiave italiana (O magari, semplicemente, pensare a tradurre in italiano il volume creato a Gent).
Ma partiamo accogliendo, subito, la prima suggestione: il teatro è un luogo della verità?
Il Teatro è un luogo della verità.
di Milo Rau
Una volta vidi un monologo alla Volksbühne di Berlino, messo in scena da un mio amico. Il ruolo principale era interpretato da un attore che faceva parte dell’ensemble del teatro da quasi vent’anni ma che, per ragioni a me sconosciute, non aveva mai avuto l’occasione di interpretare un solo ruolo. Ad un certo momento dello spettacolo quest’attore stava recitando il momento della sua morte: vestito e truccato come se fosse in un film muto, improvvisamente, si fermò nel bel mezzo del palcoscenico. Fino a quell’istante non aveva mai fatto una pausa, ma ora si era fermato per guardarsi intorno. Rimase in silenzio, per un lungo lasso di tempo. E poi alzò un dito, come se avesse voluto dire qualcosa, aprì una botola e ci saltò dentro. Se ne era andato e non sarebbe tornato. E per quello che mi riguardava, per sempre.
Un’altra volta a salire sul palco fu una contadina. Accadde nel Congo Orientale, a Bukavu, nell’ambito di un tribunale del popolo che organizzammo là contro le grandi compagnie minerarie. Impiegammo settimane per convincere questa donna a recitare. Lei era stata deportata, come il suo intero villaggio, su una montagna ventosa; le sue capre avevano bevuto da un lago contaminato da cianuro vicino una miniera d’oro ed erano morte. Ha raccontato tutto questo, e mentre stava parlando, per qualche ragione il cronometro si era bloccato. Così iniziò a parlare a proposito dei suoi sogni. Di come avrebbe voluto ritornare al suo villaggio, di quante stanze avrebbe dovuto avere la sua casa, di quante mucche avrebbe voluto avere. Ci rendemmo conto solo dopo che il suo intervento era durato per più di un’ora. Una sala di 1000 persone aveva ascoltato incantata questa contadina.
E un’altra volta ancora, 15 anni prima, giocammo una partita di ping-pong in un teatro off di Berlino. Una compagnia post-drammatica aveva messo in scena un testo cinese per puro divertimento e durante l’intervallo venivano portati sul palcoscenico dei tavoli di Ping-Pong. Si stava facendo tardi, lo spettacolo doveva riprendere ma noi eravamo ancora nel bel mezzo della partita. Gli attori erano ai lati, ci facevano segno che volevano continuare e noi gli rispondemmo: abbiamo quasi finito! Il tempo della partita e il tempo della performance di quella sera si sovrapposero; per alcuni minuti la pausa e lo spettacolo diventarono una cosa sola – come spesso accade in teatro.
Adoro il modo che hanno le pecore di stare sul palco: la loro presenza inizialmente esitante poi via via sempre più comoda. E in scena mi piacciono anche la pioggia, il vento, gli oggetti pesanti. E le macchine, gli strumenti. Mi piace anche che non ci sia nulla. E anche guardare i bambini mentre fanno i loro esercizi di riscaldamento – assistere alla loro maestria assoluta nel gestire forma ed emozione. Mi piacciono i monologhi lunghi e i lunghi silenzi. Mi piace quando un attore richiama tutta l’attenzione su di sé e poi ci lascia liberi. Ma più di tutti, mi piace che si debba sempre essere completi sul palco. Non puoi fare tagli come al montaggio, non puoi fare trucchi, il pubblico vedrà sempre tutto, in tempo reale. È un tipo di esercizio completamente diverso dal girare un film, è un esercizio completamente diverso dallo scrivere. Per esempio è pressoché impossibile riuscire a fare un elenco come questo in teatro. Il tempo passa uniformemente sul palco, così come in ogni giorno della nostra vita. Lo spazio scenico è completamente visibile, come una sala d’attesa: sempre lì, ostinatamente. Ogni tanto potrebbe capitare di chiedersi: e là sopra dovrebbe accadere qualcosa di meraviglioso?
Poiché il teatro è così non-moderno e così antiquato, perché è un luogo di verità (e umiltà di fronte alla materialità del mondo e dei suoi abitanti), è diventato un luogo di horror vacui. Per tanto tempo ho odiato il teatro: le grida, l’uso di vecchi testi, l’abuso di musica, solo per dimenticare che cos’è realmente. Perché non puoi semplicemente guardare qualcuno che va da destra a sinistra? Guardare come una persona parla, come si svela agli altri? Come è finita lì? Perché non possiamo più sopportare la pura esistenza di cui il teatro è il posto più naturale? Forse il teatro è un esercizio per il nostro tempo: bisogna fare i conti con quello che abbiamo. Siamo esseri umani, non ci manca nulla. Abbiamo i nostri corpi, qualche lingua, delle norme sociali, e una storia qualche volta violenta, qualche volta promettente. Abbiamo gli uni gli altri, ma abbiamo anche le lunghe strade che ogni parola – specialmente un «no», un «questo non può più essere così», cioè la rivolta – deve percorrere dentro di noi. Abbiamo molto ma al tempo stesso nessun’abbondanza. Il teatro ci dice: vi deve bastare quello che avete. E: voglio vederlo, in tutta la sua estensione possibile. Sono interessato ad una vittoria dell’umanità in teatro più che in qualsiasi altro luogo: perché il teatro è soggetto alle regole della realtà come nient’altro.
Perché il teatro? Perché il palco rende possibile far apparire le persone? Perché – come si potrebbe mai dimenticare? – è il nostro vero posto? Il teatro che mi piace è il luogo dove quello che abbiamo è lì: né di più né di meno. Un’attrice una volta mi raccontò questa scena: un attore, disperato come una figura cechoviana, si sparò in quinta. Dopo un po’ riapparve, salendo la rampa del palco cosparso di sangue. Era un fantasma? Qualcuno avrebbe dovuto essere spaventato da lui? Non si poteva sapere. Ma poi lui rise e si inchinò.
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