Il regista Milo Rau, direttore di NTGent, era in Brasile, per l’atteso allestimento di Antigone, con il Movimento dei Lavoratori Senza Terra (MST) e delle popolazioni indigene a Marabà, quando si è diffuso il Coronavirus. Le prove sono state sospese. Dopo aver passato un periodo di quarantena in una stanza d’albergo, Milo Rau ha scritto e mi ha inviato questa ampia riflessione, nella traduzione di Riccardo Benedy Raschi che ringrazio. Con grande piacere pubblico qui.
Antigone in Amazzonia
Fino allo scorso giovedì si sono svolte le prove per una nostra nuova versione dell’Antigone di Sofocle con gli/le attivist* del Movimento dei Lavoratori Senza Terra (MST) e delle popolazioni indigene a Marabà, città brasiliana ai piedi delle colline amazzoniche meridionali. Quella che Alexander Kluge, durante un’intervista, ha definito “emergenza dell’anima” provocata dal Coronavirus, suonava alquanto surreale in Amazzonia. “Non arriva quasi nulla fin quaggiù”, ha detto senza scomporsi la direttrice della sezione locale del Movimento Senza Terra, “perciò questa malattia non sarà da meno”. Quando ad inizio marzo abbiamo lasciato l’Europa, l’epidemia sembrava ancora gestibile. Io sono direttore del teatro di Gent e fino ad allora diverse nostre produzioni andavano in scena contemporaneamente in molte città europee. Gli eventi hanno poi preso bruscamente una brutta piega. Prima è stata chiusa la sala principale, poi sono state interrotte le produzioni ospiti, infine NTGent ha chiuso del tutto. Un’attrice, il cui padre ha contratto il virus, è fuggita di fretta in Europa prima che i voli venissero cancellati. Il Vecchio Continente ha chiuso le sue porte e, con un salto a ritroso di 500 anni, Europa e America si sono trovate nuovamente divise.
In tutto lo Stato del Parà, in cui si trova Marabà, è stato rilevato solo un caso positivo di Covid-19 alla fine della scorsa settimana. Quello che potrebbe però succedere con l’effettiva esplosione dell’epidemia è imprevedibile. Il sistema sanitario nel nord del Brasile è inesistente, malfunzionante, mentre il social distancing sarebbe un privilegio esclusivo delle élite. Perciò abbiamo deciso di fermare la produzione dell’Antigone in Amazzonia di comune accordo con i nostri co-produttori: il Movimento Senza Terra brasiliano, un’organizzazione che, con la professionalità di una guerriglia legale, riunisce oltre due milioni di famiglie nell’occupazione di terreni improduttivi o sottratti illegalmente dalle grandi aziende.
La nostra Antigone in Amazzonia è cominciata di fatto due anni fa, quando la mia drammaturga Eva-Marie Bertschy ha conosciuto alcuni funzionari dell’MST ad un congresso. Un anno dopo, nel marzo 2019, alcune delle mie opere teatrali e dei miei film sono stati portati in Brasile, anche se, con l’opposizione di alcuni politici di destra, non in tre città come previsto, ma soltanto in una: San Paolo.
“È ora che qualcuno abbia il coraggio di impedire questo teatro decadente con la forza necessaria”, ha scritto un critico a proposito della mia opera sull’omofobia The Repetition. Nel frattempo, l’allora neo-eletto presidente Bolsonaro minacciava via Twitter di incarcerazione o di morte chiunque fosse anche minimamente diverso da lui – gay, democratici e indigeni in particolare, donne e indigenti più in generale, quindi circa l’80% della popolazione.
Le istituzioni sono state quindi accantonate per essere spente e riaccese al servizio delle multinazionali e del movimento evangelico. Il ministero per i diritti umani, ad esempio, è stato ribattezzato “Ministero della Famiglia”, mentre alla FUNAI, organizzazione governativa dedicata alla protezione dei popoli indigeni, è stato assegnato un nuovo presidente: un evangelico noto per la conversione dei popoli indigeni. Il “Ministero dell’Ambiente” è gestito da un negazionista del cambiamento climatico, e dopo poco più di un anno al potere ci sono già più militari nell’amministrazione di Bolsonaro che nell’ex dittatura militare.
“L’agroindustria mi amerà. Il biglietto di benvenuto per il Movimento Senza Terra sarà un’arma carica”, aveva detto il presidente brasiliano già in uno dei suoi primi discorsi. Da allora i diritti dei popoli indigeni sanciti dalla Costituzione sono stati praticamente cancellati, le riforme sociali del governo Lula rimosse, il tutto ovviamente sotto il manto dell’austerità. Ma mentre il neoliberismo classico produce disuguaglianze senza la preoccupazione di dover dare giustificazioni ideologiche, liquidate semplicemente dal mito della concorrenza, il liberalismo autoritario à la Bolsonaro sta rivestendo il concetto di neoliberismo di un nuovo ardore fascista. Non solo cerca di ridurre il mondo a un bene commerciabile; disprezza pure esplicitamente ciò che ai suoi occhi pare “superfluo”.
Mentre la scorsa estate le foreste del nord del Brasile bruciavano, tutto questo è diventato evidente. Si è scoperto ben presto che ad incendiarle erano state le bande pagate dalle grandi agroindustrie per ricavare spazi più grandi per il bestiame e più terreni per le monocolture di soia. Ma soprattutto quella è stata anche un’occasione per distruggere l’habitat delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, e con esso la loro resistenza agli innumerevoli progetti su larga scala di Bolsonaro. Sotto il Rio delle Amazzoni hanno trovato l’alluminio, e dove ancora oggi sorge la foresta, a breve sorgerà un complesso minerario e industriale.
Sarebbe difficile trovare un’immagine più adatta a questa guerra culturale brasiliana, che sa anche di guerra civile, della tragedia bimillenaria di Sofocle. Antigone è la storia del tiranno Creonte, che vuole mantenere il potere a tutti i costi, e di Antigone, che gli si oppone. La protagonista della nostra Antigone è l’attrice e attivista brasiliana Kay Sara, mentre il coro è composto da superstiti di un massacro di contadini perpetrato dal governo brasiliano. Creonte, il principio del potere e dello sfruttamento, è interpretato invece da un ex Ministro della Cultura, ora attore e regista teatrale fin troppo consapevole delle contraddizioni del sistema brasiliano.
Per noi era infatti importante portare in scena non “solo” Bolsonaro, ma anche – ebbene sì – il Lula improvvisamente neoliberista. Benché in passato fosse un marxista hardcore e abbia aiutato milioni di famiglie a uscire dalla povertà, durante la sua presidenza ha anche fatto diversi compromessi con l’agroindustria. E così anche chi l’ha succeduto: subito prima del colpo di stato travestito da impeachment contro di lei, Dilma Roussef ha inaugurato un’enorme diga in Amazzonia. Migliaia di sfollati e un’epica estinzione delle specie gravano ancora sulle spalle di Lula e il Movimento Senza Terra si batte tuttora contro di lui.
“Molte sono le mostruosità, ma nulla è più mostruoso dell’uomo”, come dice il primo e più celebre stasimo dell’Antigone. La hybris degli antichi greci, che attraversavano il Mediterraneo su navi di legno e si opponevano alla morte con semplici rudimenti medici, sembra quasi infantile nell’epoca dell’economia globale. Giusto accanto al podere occupato in cui abbiamo fatto le prove dell’Antigone fino a giovedì scorso, la più grande miniera di ferro dell’intera America latina inghiottisce la foresta, e quotidianamente le milizie di Bolsonaro assassinano gli attivisti ambientalisti. I segni dell’apocalisse sono inequivocabili: lo scorso agosto è piovuta cenere su San Paolo. La notte è calata in pieno giorno, le correnti di vento, che dalla notte dei tempi portano la pioggia dalla foresta amazzonica verso sud, hanno portato oscurità e fiamme. La scienza tradizionale e i saggi dei popoli indigeni danno all’ecosistema amazzonico ancora una decina d’anni. Se fino ad allora non si dovesse raggiungere una fondamentale inversione di tendenza, esso è destinato a capitolare. E in maniera irreversibile, che in proporzioni umane significa per sempre.
E proprio in questo contesto si aggiunge anche l’esplosione della pandemia forse più grande degli ultimi cent’anni. Quando due settimane fa è stato ufficialmente diagnosticato il primo caso di coronavirus a San Paolo, Bolsonaro, con ostentata ignoranza, sembrava voler fare quasi tutto per rendere l’impatto della malattia il più devastante possibile. Non potrebbe certo fregargliene di meno: in quanto membro dell’élite globale ha accesso ad un sistema sanitario efficace. Uno degli effetti collaterali potrebbe essere il totale annullamento della democrazia brasiliana. Quel che più lo preoccupa è soprattutto sbarazzarsi per sempre di ciò che in cuor suo ritiene superfluo.
Inorridisco solo a pensare a cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi in Brasile e più in generale nei paesi del Sud del mondo. Nelle periferie della globalizzazione il coronavirus sta comparendo con un ritardo ingannevole. Anch’esse subiranno l’aggressione del virus ma, con l’inevitabile abbandono da parte delle proprie élites, con una potenza ancora più brutale. Sembra quasi che il coronavirus voglia andare a braccetto con le fantasie di sterminio di Bolsonaro nel suo tentativo di rendere la ristrutturazione sociale istituzionalizzata una realtà biopolitica. Il Covid-19 non è dunque una malattia che “ci rende tutti uguali”: anche e soprattutto nel Sud del mondo i deboli, gli anziani e i poveri sono quelli che muoiono in maggior numero – e presto probabilmente a ritmo vertiginoso, poiché i virus nati dall’ambiente distrutto per mano dell’uomo si trasmettono sulla civiltà e si propagano in tempi brevissimi attraverso la rete globale di trasporto di beni e di persone. Con l’innesto di monocolture geneticamente modificate si è giunti all’abbattimento di ogni barriera immunitaria. Da un punto di vista epidemiologico, viviamo in una rete di distribuzione virale. Se l’agroindustria fosse concepita come una macchina per la distruzione, difficilmente potrebbe essere più efficace.
Ma la cosa forse più inquietante del coronavirus è la distorsione del piano temporale. Nessuno sa esattamente quanto questa crisi durerà, anche se alcuni sono certi: non si tratta di una crisi, ma dell’essenza di una nuova era. Il Covid-19 introdurrebbe così, in modo subdolo, lo stato di emergenza non come interruzione, ma come verità di una nuova civiltà post-umanistica. La malattia come critica in senso kantiano: come se la “ragione” della nostra civiltà venisse purificata dai suoi additivi morali, dalla propria immagine di sé, per mostrarsi in tutta la sua vera essenza. E questo, ahimè, è fascista.
Per quanto le ragioni epidemiologiche siano cristalline, è sorprendente come da un momento all’altro il consenso occidentale si sia incentrato sulla sopravvivenza della famiglia del prossimo e ancor di più sull’obbedienza alle istruzioni del governo. La chiusura delle frontiere ai rifugiati e il loro confinamento nei campi profughi vengono venduti come misura di restrizione della mobilità per l’epidemia, mentre decine di migliaia di cittadini vengono rimpatriati da ogni parte del mondo. Proprio perché questo è così contraddittorio sul piano epidemiologico, è invece perfettamente logico su quello nazionalistico. E così, mentre il Sud del mondo si prepara a pagare a prezzo pieno la globalizzazione del virus, l’Europa – ah no, mi correggo: Germania, Francia, Svizzera, Belgio, eccetera, perché l’Europa non esiste più – invoca la politica di vicinato e l’autarchia.
In che direzione andrà il Vecchio Continente? Durante la mia quarantena brasiliana ho avuto un sacco di tempo, finendo col cercare di leggere gli inserti culturali online in maniera trasversale. In quanto regista teatrale, ho cercato di immaginare il cartellone per la prossima stagione: il Requiem o il Ratto del serraglio di Mozart eseguiti con delle mascherine chirurgiche di seta; lazzaretti da quarantena ricostruiti sui palchi dei teatri cittadini per rappresentare – boh?; ballerini che imitano i goffi tentativi di mantenere le distanze tra i passanti; claustrofobiche storie di relazioni e di home office dal tocco post-apocalittico. La peste di Camus sarà probabilmente il testo più gettonato del prossimo anno, seguito da adattamenti in chiave moderna del Decamerone di Boccaccio e dalle lezioni di Foucault sulla biopolitica. Le immagini di strade e piazze europee che si vedono su Facebook determineranno l’umore della stagione a venire, un ipotetico stile neo-Hopper. La cosa più fastidiosa saranno i diari della quarantena. Ma ciò che oggi sembra surreale, noioso, borghesotto, diventerà la quotidianità, e di conseguenza anche un bene culturale. La vecchia Europa, si sa, risponde abitualmente alle crisi con introversione: la romantizzazione della quarantena come bene di lusso e come tema da cartellone.
Poco prima del decollo mi sono imbattuto in una sorta di protocollo onirico dell’ideologia occidentale post-coroniale: un saggio scritto dal “futurologo” Matthias Horx, condiviso su Facebook in maniera quasi epidemica. Nel testo l’autore si immagina una sorta di fantastico stato sociale piccolo-borghese, un bel Nuovo Mondo fatto di musicisti sui balconi e di passeggiate solitarie. Le corsie dei supermercati, nel mondo di Horx, sono sempre piene, senza interesse per chi abbia prodotto la merce o quali terre siano state sfruttate per le materie prime. Queste verrebbero infatti non da posti reali, ma da fantomatici “luoghi di stoccaggio provvisorio”. Quest’Europa, logicamente, non avrebbe più bisogno della “politica maligna e divisiva” dell’AfD (Alternative für Deutschland): la sua essenza sarebbe talmente esclusiva che l’esclusione non avrebbe nemmeno più il bisogno di essere politicizzata. Antigone e Creonte se ne vanno in pensione e il sovrano illuminato proclama la rinuncia come ultimo perfezionamento spirituale al cuore del consumismo globale. Forse anche Maria Antonietta si era immaginata un futuro simile: un’ora di yoga senza fine per un’élite lobotomizzata che ignora la storia e la filosofia. Solo che le cose andarono diversamente: gli affamati marciarono dalle periferie verso i palazzi, Maria Antonietta finì senza testa.
Riuscirà questo coronavirus, così come fu per la febbre spagnola, a portare una rivoluzione globale? Kay Sara, la nostra Antigone, per il momento si è ritirata nel profondo della foresta per stare vicina al suo popolo. Tutte le attività del Movimento Senza Terra sono sospese fino a fine aprile, i lavori per la nostra Antigone in Amazzonia riprenderanno solo a novembre. Ad ora non è stato registrato alcun caso di virus a Marabà, non ancora, e il modo in cui la società brasiliana, divisa sotto tanti aspetti, reagirà nel suo complesso, è scritto nelle stelle. Bolsonaro cadrà o uscirà dalla crisi con più vigore dittatoriale? Impossibile saperlo.
Ma una cosa è certa: il rinnovamento spirituale non verrà di certo da quelle gated communities che hanno prodotto il neoliberismo autoritario. La filosofia dei tempi a venire sorgerà dalle foreste, dalle favelas e dalle periferie, dalle case e dalle monocolture occupate. L’ironia finale della storia, per la quale i governanti vorranno impartire ai governati una filosofia della rinuncia, sarà un’ironia che i “superflui” non accetteranno.
Milo Rau
Traduzione di Riccardo Benedy Raschi
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Stimati curatori de “Gli Stati Generali”,
sarei felice se riusciste a contattare il regista Milo Rau e lo informaste che ci sono altre persone che, come lui, lavorano per contrastare il potere di personaggi come Bolsonaro e a favore dell’MST. C’è un piccolo film (circa 7 minuti) apparso qualche giorno prima del ballottaggio in Brasile, su Vimeo, che mette in guardia gli elettori contro i pericoli a cui vanno incontro votando Bolsonaro. Mostra proprio la sua falsità, malafede e violenza verso l’MST e la realtà degli accampamenti.
Penso che Milo Rau lo troverà interessante. E se vuole mettersi in contatto con l’autore, io so dove trovarlo.
Il link: https://vimeo.com/297151470
Un grazie per il vostro lavoro
Andrea Narese