Teatro

Mephisto o l’ambizione dell’Attore

24 Novembre 2015

Arriva tra poco a Milano, dal primo dicembre al Franco Parenti, la nuova – e coraggiosa! – produzione del CTB di Brescia.

Vale la pena riflettere su questo rutilante, spiazzante spettacolo diretto e interpretato da Luca Micheletti, in scena con Federica Fracassi e Michele Nani, e con Lidia Carew, Massimo Scola (alle percussioni live Maurizio Felicina).

Vale la pena intanto perché un teatro importante come quello bresciano investe su un giovanotto (classe 1985) affidandogli l’apertura della stagione. Poi perché questo testo, tratto dal romanzo di Klaus Mann, secondogenito di Thomas, è uno scrigno di riflessioni possibili.

Nell’immaginario collettivo, Mephisto ha spesso il volto ricoperto di biacca di Klaus Maria Brandauer, protagonista del film premio Oscar di István Szabó del 1981. Ma il romanzo di Mann vide la luce decenni prima, nel 1936: testo difficile, complesso, ricco di rimandi e feroce ironia, che pone al centro della narrazione un vero attore. Si tratta di Gustaf Gründgens – nella finzione letteraria diventa Hendrik Höfgen – e la storia, attraversando anni bui del Novecento, narra della sua ascesa e del (temporaneo) declino, del suo patto, mefistofelico appunto, con il nazismo, incarnato e identificato con l’orrido Hermann Goering. Il Mephisto, romanzo di una carriera di Mann è dunque un racconto di (de)formazione teatrale: una riflessione acuta non tanto e non solo sulle leggi del palcoscenico, quanto un trattato di “antropologia culturale” che mette a fuoco contraddizioni, paure, tensioni, ambizioni, frustrazioni dell’Attore. Höfgen/ Gründgens accetta di stringere la mano al male, ne assume il punto di vista pur di fare teatro, pur di andare in scena (e nella vita reale continuerà a lavorare ben dopo la guerra nei teatri tedeschi).

Si intuisce, indipendentemente dall’aver letto il libro originale o visto il film, che questa storia ha una forza strutturale e ambigua, poiché attiene a un tema sempre attuale: ovvero la responsabilità dell’artista nel mondo. Fino a che punto vale la pena compromettersi? Fino a che punto indignarsi e rifiutare?

E per Micheletti è spunto allora per un “ritratto d’artista come angelo caduto”, come recita il sottotitolo: nella dotta e intrigante operazione di adattamento, la narrazione si dipana in un continuo slittamento drammaturgico che chiama in causa il Faust di Goethe come il Doctor Faust di Thomas Mann, ma non esclude ampi rimandi al presente.

Mephisto, foto di Umberto Favretto
Mephisto, foto di Umberto Favretto

Lo spettacolo è imponente: nelle sontuose scene, funzionali e affascinanti, di Csaba Antal, la storia dell’Attore si intreccia con quella dell’Attrice (Fracassi), anche lei simbolo di una ascesa e caduta di una aspirante starlette di provincia che convolerà a nozze con il gerarca nazista; e con quella di una bella ballerina in fretta ripudiata per “l’imbarazzo” del colore della sua pelle (la brava Carew).

È una matassa ingarbugliata, quella che avviluppa Mephisto: è un gioco di specchi in cui ciascuno può ritrovare se stesso.

Nel costante, nevrotico, paradossale sopra-le-righe di una recitazione spinta costantemente all’eccesso, ci sono sprazzi di consapevolezza dolorosa. La fragilità umana, la solitudine, l’opportunismo, il carrierismo, la violenza, la sopraffazione: parole chiave da declinare in un’idea d’arte che snocciola le contraddizioni non solo di sistema, ma anche e soprattutto umane e private dell’artista. Non si salva nessuno, qua: nel mondo di Mephisto, la crisi non è solo socio-economica, ma di valori e di personalità.

Ed è bravo – addirittura virtuoso – Luca Micheletti, con quella sua faccia alla Dirk Bogarde, a tenere le fila di un personaggio certo non facile. Lo fa giocando, mettendosi in mostra e ritraendosi, calcando la mano ed esasperando, sfuggendo continuamente a ogni possibile, ancorché finta, sincerità. Accanto a lui, Federica Fracassi conferma il suo straordinario talentaccio: aspra, negativa, sfrontata, fa della sua Lotte il paradigma di un femminile assolutamente discutibile. E sa prendere le distanze dal personaggio, seppure aderendovi e dando corpo e anima a una donna disposta a tutto pur di “arrivare”.

Mephisto, foto di Umberto Favretto
Mephisto, foto di Umberto Favretto

Lo spettacolo – quando l’ho visto a Brescia – dura quasi tre ore. Probabilmente qualche taglio, qua e là, gioverebbe: soprattutto in alcune scene volutamente insistite, grottesche e grosziane, che rischiano però di travolgere lo spettatore.

Ma, in tutta quella mirabilia, Mephisto pone con forza una domanda tragicamente attuale: cosa fare di fronte all’orrore? L’artista, come ogni uomo, può essere convivente, connivente, addirittura sostenitore, oppure rifiutare.

E poi tanto vale dimenticarsela, la maschera di Brandauer nel film di Szabó, perché oggi sotto quella biacca troveremmo il volto imberbe e sparuto di qualsiasi giovane attore italiano. Fare teatro in Italia è difficile, complicato: siamo un Paese che ha abdicato – o sta abdicando – alla propria cultura. E il teatro non fa eccezione, anzi. Nel settore spettacolo dal vivo, lavorare diventa sempre più un miraggio. Oggi andare in scena non solo non paga, ma addirittura costa. C’è chi paga per affittare la sala, chi paga per partecipare a un provino, chi paga per frequentare il workshop del Maestro di turno. Tutti disposti a tutto, ormai, pur di fare lo spettacolo.

Ma fino a quando? Fino a che punto?

Eccolo là, all’orizzonte, il ghigno di Mephisto, il suo stringere la mano a Goering. La questione, non retorica, è sempre la stessa: a cosa un attore è disposto a rinunciare, pur di far carriera?

 

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